Aveva decisamente esagerato, spingendo le proprie avances verso una collega di lavoro fino agli atti osceni; e ciò durante un meeting di lavoro, non durante un sabato sera in cui magari si è alzato un po’ il gomito. Quindi lei, per nulla intenzionata a subire questo tipo di violenza, ha denunciato il maldestro maniaco alle forze dell’ordine, costituendosi anche parte civile nel processo penale a suo carico.
I dirigenti della società, rimasti allibiti di fronte a una vicenda non proprio edificante per l’azienda, hanno presto provveduto al licenziamento del lavoratore, che però ha avuto il coraggio di presentare ricorso, ritenendo inattendibili le dichiarazioni rese dalla predetta collega, che avrebbe denunciato il fatto solo un mese dopo.
Ma la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 13979/2018, ha dato il via libera al licenziamento per giusta causa: non sussisterebbe, infatti, alcuna violazione dell'art. 2697 c.c. (che si sarebbe configurato solo qualora il giudice avesse attribuito l'onere della prova a una parte diversa da quella che ne è gravata, secondo le regole dettate dalla norma) e degli artt. 115 e 116 c.p.c. (per un'erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito) chiamati in ballo dal ricorrente.
Il giudice ha così concluso: “La censura del ricorrente si risolve piuttosto in un'inammissibile contestazione dell'accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, pure sorretti da un ragionamento argomentativo corretto, nella sottesa ma evidente sollecitazione di un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità.”
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