Categorie: Cultura

Che succede tra la destra e gli intellettuali?

L’altro giorno alla trasmissione mattutina "Omnibus" è andata in onda una baruffa tra Giorgia Meloni e Alessandro Giuli, vicedirettore de Il Foglio, sulle colpe del disastro della destra. Singolarmente, Giuli le rimproverava (proprio lui che sul suo giornale elogia le virtù politiche di Daniela Santanchè) la complicità con Berlusconi e il fatto di avere abbastanza in ritardo compreso che la destra di potere e la destra “militante” coincidono solo nella retorica che appunto fa scappare gli elettori. Meloni replicava che non tutti sono ugualmente responsabili (vero) e poi con la solita accusa che i politici rivolgono agli intellettuali o sedicenti tali (ma a destra basta scrivere un libro e già ti guardano con sospetto come se fossi un vero intellettuale, dunque un essere “alieno”): voi bravi solo a criticare mentre c’è chi si sporca le mani…

Poi è stato Giuli a cadere nella trappola del luogo comune, accusando Meloni e la classe dirigente di An di non avere letto libri, e in particolare di non avere letto libri come “Gli uomini e le rovine”, titolo che un tempo (assai lontano in verità) figurava nelle bibliografie del perfetto militante-credente. Ma ci sarebbe da discutere, poi, sull’utilità, nella fase odierna, della rilettura di quel testo visto che non di un fronte conservatore c’è bisogno ma semmai del suo contrario.

Gianni Alemanno replicava invece ieri sul Giornale alle considerazioni velenose di Marcello Veneziani sulla sua esperienza capitolina, rispolverando argomenti che da tempo non si sentivano più e che sembrano appartenere al repertorio dialettico del Pci anni Settanta. Alemanno accusava la destra di frazionismo e invitava gli intellettuali a “fare muro” come avviene a sinistra. Considerazione, quest’ultima, che non tiene davvero conto dell’evoluzione del dibattito nel campo avversario, basterebbe guardare la singolare discussione tra renziani e bersaniani sul “modello Briatore”. Ma lasciamo stare. Che se ne ricava, alla fine? Che intellettuali e politici a destra continuano a guardarsi in cagnesco ed è in fondo un bene che sia così.

Quello che non va bene è che la destra guardi con supponenza, scetticismo e altero distacco a tutto ciò che somiglia vagamente a un dibattito delle idee, a un frammento di politiche culturali, che si discosti dal mero inseguimento di percentuali a due cifre. Ma perché avviene tutto questo?

La destra non sopporta che vi sia elaborazione culturale autonoma dall’apparato. Bisogna andare indietro nel tempo per trovare qualcosa del genere nell’area del Msi. La Nuova Destra di Marco Tarchi fu additata come pericoloso cedimento culturale rispetto all’identità (inesistente) del Msi proprio perché non se ne tollerava l’autonomia progettuale. E, ancora, perché se si esce dallo schema che vuole l’intellettuale cedevole scribacchino al servizio dei pennacchiati di turno allora ci si tira addosso tutto il repertorio del politicamente scorretto da borgata.

In pratica: a destra puoi al massimo aspirare a fare il ghost writer. Se sali un gradino vieni attenzionato come potenziale rompicoglioni. Piace ancora il modello dell’intellettuale organico, i cui esempi sono presto fatti: Armando Plebe e Domenico Fisichella.

Per capire meglio l’incomprensione delle classi dirigenti della destra nei confronti del mondo che lavora con le idee e non con le tessere bisogna fare l’esempio della lista Pennacchi di Latina, non per difendere l’iniziativa (una delle pochissime cose espresse da Fli degne di rilievo) ma per segnalare la soddisfazione con cui venne accolto il suo fallimento.

Ricordo un’intervista a Gasparri sul Secolo (fatta dagli stessi che qualche mese prima rincorrevano Antonio Pennacchi per intervistarlo su Fini) in cui l’ex colonnello di An infieriva con sarcasmo, e addirittura giubilava per lo scarso risultato conseguito dalla lista: gli intellettuali, argomentava Gasparri, non servono a prendere voti (eppure lui un intellettuale di riferimento ce l’ha e sappiamo tutti chi è), a ognuno il suo mestiere: a noi la gestione del consenso e a loro il “culturame” da salotto.

Questo spiega molto bene la risposta alla battuta di Ignazio La Russa: un tempo avevamo Prezzolini mentre oggi… Questo “oggi” è stato scientemente voluto, preparato e costruito da decenni di sterili guerre tra intellettuali e politici nel terreno di una destra che litigava anche sulla stessa legittimità di chiamarsi tale. Quelli che si sono tenuti fuori in fondo hanno avuto la parte migliore: cooptati nella “cultura di destra” attraverso l’assunzione in Rai. Perché in fondo interpretare il “sentimento popolare” è sempre meglio (e più redditizio) che leggersi Evola…

E il sentimento popolare che la destra deve rispecchiare secondo i canoni odierni oscilla tra "Amici" della De Filippi e la battuta di Cetto La Qualunque: "Io in una libreria? Guarda che se entri una volta in una libreria non si sa come va a finire, può pure succedere che diventi ricchione…".

Redazione

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