Cultura

De André il celeberrimo. O De André da esplorare ancora?

L’agiografia di cui l’hanno fatto oggetto dopo la morte, avvenuta l’11 gennaio 1999, l’avrebbe messo in imbarazzo. Parecchio in imbarazzo. Troppi complimenti, troppe celebrazioni, troppa omogeneità. E soprattutto, all’interno di quella strana e ondivaga combriccola che sono gli “addetti ai lavori”, troppe autocandidature al premio “Io sì che l’ho sempre adorato”.

Sembra incredibile, che non avessero capito. Che continuassero a cullarsi nell’illusione di assomigliargli, di essergli addirittura fratelli, solo perché ingrossavano le file dei suoi ammiratori. Possibile che non si chiedessero, nemmeno in via puramente ipotetica, se non fossero loro stessi, e quelli come loro, il bersaglio delle sue canzoni?

“Smisurata preghiera, per esempio. il brano di chiusura di “Anime salve”, il suo ultimo album. Le miriadi di persone alle quali si riferivano lui e Ivano Fossati quando cantavano “recitando un rosario di ambizioni meschine, di millenarie paure, di inesauribili astuzie, coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie, la maggioranza sta: come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia,  come un’abitudine”.

L’eccesso di popolarità ha finito con l’appiattirlo su un’immagine gigantesca, ma stereotipata. Che riduce la sua grandezza, innanzitutto artistica, a una benevolenza generalizzata verso gli emarginati, gli esclusi, gli “ultimi”.

Il suo mondo creativo era di gran lunga più complesso. E bisognerebbe che chiunque ci si accostasse senza confondere l’ammirazione con l’affinità. La familiarità superficiale, che si instaura fatalmente nei confronti dei personaggi celebri, con una comprensione più profonda. L’empatia, vera o presunta, con la capacità di capire tutto all’istante.

Celeberrimo. O da esplorare ancora?

Fabrizio De André ritornava infinite volte sui testi, prima di licenziarli, e anche a quel punto lo faceva un po’ a malincuore, perché avrebbe significato rinunciare a migliorarli ancora. Sorprendente? No, necessario. A chi non ha mai scritto nulla in vita sua può sfuggire: ma quando rileggi ciò che hai fissato sulla carta, in effetti lo stai interrogando. Per scoprire se c’è qualcos’altro – qualche altra connessione, qualche altra suggestione – che non hai ancora afferrato.

E un atteggiamento analogo, naturalmente, dovrebbero averlo gli estimatori di un artista. Ricordarsi sempre che i bagliori più evidenti di una canzone, di un romanzo, di un film, non sono affatto gli unici. E non sono necessariamente i più importanti.

Fabrizio De André non ha realizzato moltissimi album, lungo i trent’anni che separano quello dell’esordio da quello dell’addio. Il totale è di tredici. Di appena tredici. Ma c’è da chiedersi quanti siano, tra i tantissimi che lo amano e che perciò sono convinti di conoscerlo bene, quelli che li hanno ascoltati (e riascoltati) proprio tutti e per intero.

Provate a domandarvelo: cosa mi dice “Parlando del naufragio della London Valour”? E “Sogno numero due”? E “La domenica delle salme”?

Forse, a vent’anni dalla sua morte, potreste scoprire che ci sono certe strade meno battute che nella fretta vi sono sfuggite. Rammaricatevi per la distrazione. Siate felici per quello che vi aspetta.

Federico Zamboni

Giornalista professionista e molto altro, tra stampa, radio e incontri pubblici. Terreno di caccia preferito: la società occidentale che fa finta di essere libera, democratica, benintenzionata. Nel 2019 ha pubblicato “Loro sono furbi… ma noi possiamo essere intelligenti” (Guida alle tecniche di manipolazione).

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