Quanto è lontana Novi Ligure, da noi che abitiamo nel Lazio? Geograficamente, abbastanza: sui 5-600 chilometri. Economicamente, per nulla. Perché le stesse dinamiche che oggi stanno colpendo lassù, in provincia di Alessandria, riguardano direttamente qualsiasi regione italiana e le relative popolazioni.
Lo schema è quello tipico dell’economia globale. Con i capitali esteri che vanno a fare shopping dove gli pare. Per cui arrivano qui da noi, ad esempio, e si comprano una certa impresa perché ha un marchio famoso. Un ‘brand’ già affermato che è di per sé un valore non da poco. E in effetti è proprio il marchio, la cosa principale che vogliono acquisire. Il marchio e magari, ma non sempre, il know how aziendale.
Il resto, ossia gli stabilimenti e le persone che ci lavorano, sono solo un contorno. Un vincolo momentaneo, se non addirittura una zavorra, di cui ci si libererà in seguito. Appena possibile.
Ed è appunto questo, ciò che sta avvenendo a Novi Ligure. Dove il colosso turco dei fratelli Toksoz, che ha acquistato la Pernigotti nel 2013, ha deciso che la fabbrica locale – la fabbrica storica – non le serve più. Invece di gestire direttamente la produzione, è più vantaggioso affidarla a qualcun altro e limitarsi ad aggiungere alle merci l’etichetta con il brand di successo. Termine tecnico: terziarizzazione.
Le conseguenze pratiche sono variabili. Quella più ovvia è che si chiude lo stabilimento di Novi Ligure e ciao-ciao (che chissà come si dice, in turco). Un’altra possibilità, invece, la illustra una nota della stessa Pernigotti. Ossia dei Toksoz che ne sono i proprietari: premettendo che “né il marchio né la società sono, allo stato attuale, in vendita” – e a chi legge con un po’ di attenzione non sarà sfuggito che ‘marchio e società’ sono cosa diversa da ‘impianti e maestranze’ – viene “confermata la decisione di cessare la conduzione in proprio delle attività produttive presso il sito di Novi Ligure e l’intenzione di terziarizzare in Italia la produzione, preferibilmente individuando partner industriali interessati all’acquisizione o alla gestione degli asset produttivi a Novi”.
Insomma: se c’è un altro investitore (italiano? turco? uzbeko? californiano?) che vuole rilevare lo stabilimento piemontese e lavorare ‘in subappalto’, quei posti di lavoro continueranno a esserci. Altrimenti, si andrà a cercare altrove chi sia disposto a sfornare cioccolata e affini da vendere ai ricchissimi turchi. Che poi provvederanno a commercializzare il tutto, grazie alla proprietà del marchio Pernigotti, come una ‘raffinata’ produzione italiana.
Di fronte alla prospettiva di un’incombente chiusura, il Governo è intervenuto. Ottenendo che l’operazione venga sospesa fino al 31 dicembre 2018 (e sai che bel Natale che passeranno, i lavoratori ad altissimo rischio di espulsione) ricorrendo però alla cassa integrazione.
Capito di cosa si parla, quando ci dicono che se in Italia le cose andassero meglio – con infrastrutture più moderne, normative più snelle, tribunali più rapidi nelle controversie civili – riusciremmo ad essere molto, molto più attrattivi per i capitali esteri?
Si parla di investitori che, non avendo alcun legame con i territori e con chi ci abita, si muovono solo ed esclusivamente in base al proprio tornaconto. L’importante non è chiudere male uno stabilimento e spedire a casa chissà quante persone. No. L’importante è chiudere bene i propri bilanci. In attesa di capire dove si potranno spostare quegli utili per farli fruttare ancora di più.
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