Gesù nel prologo di Giovanni

di Il capocordata

La densità del prologo (Gv. 1, 1-18) rende arduo definirne la funzione e il posto che occupa nel IV Vangelo: per alcuni esso è “una solenne prefazione” del Vangelo; per altri è come “l’ouverture”, nel senso che annuncia i temi principale giovannei; per altri ancora è “il vangelo stesso in una prospettiva sintetica e profonda”. Il pensiero progredisce ad ondate successive, da una strofa all’altra, per raggiungere la sua pienezza nell’ultima.

Giovanni si preoccupa innanzitutto di situare il Verbo di Dio nella sua condizione di eternità: “In principio era il Verbo…”. Egli risale indietro nel tempo quanto più gli è possibile, ed afferma che il Verbo esisteva già. Il Verbo era presso Dio, si trovava in stretta unione col Padre, pur rimanendo distinto da lui. Anzi, il Verbo stesso era Dio.  Poi, si proclama l’universalità dell’opera creatrice che è la Parola eterna di Dio: “Tutto ‘ stato fatto per mezzo di lui”. Giovanni proclama il ruolo creatore del Verbo, segno della sua trascendenza ed espressione della sua bontà: ciò contribuirà a mettere in rilievo la grandezza dell’incarnazione e l’ingratitudine del “mondo”.

Il Verbo non è solo creatore: è la vita e la luce degli uomini. Il frutto della sua presenza tra gli uomini è stata la manifestazione e la comunicazione della vita soprannaturale: anzi, egli è per eccellenza e personalmente la Vita. Questo termine dev’essere compreso non senso di vita fisica, ma di vita eterna, di vita soprannaturale e divina. Inoltre, egli è personalmente la luce, non la luce cosmica, ma la Luce divina e soprannaturale. Non è forse la Parola stessa di Dio, il Figlio rivelatore del Padre, la Luce che guida gli uomini? Egli è la Luce del mondo: il Servo del Signore doveva essere luce delle nazioni (Is. 42, 6), e l’evangelista precisa già il carattere universale della missione del Verbo tra gli uomini. Inoltre, lascia capire subito che non tutti hanno creduto in lui: “Le tenebre non l’hanno compresa” (v. 5). Le tenebre rappresentano il mondo lontano da Dio per ignoranza o, più spesso, per il peccato: le tenebre sono le forze del male, il mondo di Satana, nella loro opposizione a Dio che è Luce. Rimanendo nel peccato, gli uomini rimangono nelle tenebre, identificandosi con esse.

La Luce è venuta nel mondo preceduta da un testimone: Giovanni, figlio di Zaccaria. La sua grandezza risiede nella sua qualità di inviato da Dio e di testimone della Luce: il precursore ha la missione di condurre alla fede in colui che è la Luce e che deve occupare tutto il posto: “chi viene dopo di me è passato avanti a me, perché era prima di me”. Colui che è la Luce degli uomini veniva nel mondo: veniva non come una luce tra tante altre, ma come la Luce autentica: egli è la vera luce. Benché fosse nel mondo, il mondo non l’ha riconosciuta e non ha creduto in essa, perché velata, nascosta per effetto dell’incarnazione.  E’ già uno scandalo che il mondo creato dal Verbo abbia ricusato di credere nella luce, ma vi è uno scandalo più grave: “i suoi non lo accolsero” (v. 11). Mediante l’alleanza, il popolo d’Israele era diventato il popolo particolare del Signore e, grazie a Lui, questo popolo era entrato in possesso della terra, promessa ad Abramo. Però, anche se alcuni hanno creduto nel Verbo incarnato, il suo popolo ha ricusato di accoglierlo, cioè di credere in lui.

Invece, a quelli che lo accolsero, diede potere di diventare figli di Dio (v. 12). Giovanni ha presente innanzitutto coloro che hanno creduto nel Verbo incarnato quando venne tra gli uomini, ma pensa anche a tutti quelli che, a partire dall’incarnazione, hanno creduto o crederanno in lui. A tutti questi, siano essi israeliti o no, ha dato la possibilità effettiva e attuale di diventare figli di Dio. Mentre il popolo primogenito del Signore ha ricusato di credere alla luce incarnata, tutti quelli che hanno creduto nel suo nome sono diventati figli di Dio mediante una nascita che non è frutto di generazione naturale, né di istinto o di volere d’uomo, ma viene da Dio stesso.

”E il Verbo si è fatto carne…” (v. 14): Giovanni sottolinea l’identità di persona tra il Verbo increato e il Cristo. Il termine “carne” non indica il corpo in opposizione all’anima, e non ha il significato peggiorativo che assume spesso in san Paolo; esso designa l’uomo nel suo aspetto fragile, debole, perituro. Giovanni sottolinea così la trascendenza e la realtà dell’incarnazione, e nello stesso tempo ci lascia indovinare l’amore divino che si rivela in questo evento: Dio stesso è venuto fino a noi, facendosi uomo in Gesù Cristo.

Strettamente parlando, il Verbo incarnato è l’Emanuele,  è Dio, in persona, tra noi: ha dimorato tra noi. Giovanni lo presenta come il tabernacolo, il tempio della nuova alleanza. L’evangelista ha voluto presentare il Verbo incarnato come la vera dimora di Dio tra gli uomini. L’abitazione di Dio in mezzo al popolo veniva resa manifesta dalla nube, luminosa di notte, che si fermava sulla dimora e la riempiva. Alla tenda di riunione dell’Esodo e al tempio di Gerusalemme succede ora il Verbo incarnato: nella sua persona, Dio è ormai presente, e in essa si manifesta la gloria stessa di Dio, gloria che il Verbo possiede in qualità di Figlio unico inviato dal Padre. La gloria del Figlio unico non dev’essere intesa nel senso di “fama”, ma nel senso biblico di splendore divino che rivela la maestà, la santità, la potenza e il dinamismo dell’Essere divino. Di questa gloria, che si manifesta nei “segni” compiuti da Gesù, nella trasfigurazione e, soprattutto, nella risurrezione, sono testimoni Giovanni e il gruppo dei discepoli.                                                                     

Bibliografia consultata: De Surgy, 1970.

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