Gesù, pastore buono che dà la vita

Nella seconda parte del discorso sul buon pastore, l’attenzione è principalmente indirizzata alla relazione esistente tra noi e Gesù

Il Capocordata in montagna

Il Capocordata

Dio è pastore del suo popolo

I due grandi profeti dell’esilio del popolo di Israele, Isaia II ed Ezechiele, hanno in comune il motivo del Dio pastore di Israele. E’ proprio durante l’esilio che si evidenzia il limite, la fragilità e la caducità di coloro che sono a capo del popolo: sacerdoti, re e profeti non hanno saputo o voluto comprendere questo difficile momento, né hanno dato ascolto alle voci solitarie di chi ha saputo riconoscere l’agire di Dio attraverso i drammatici eventi.

Il Capocordata in montagna
Il Capocordata

Nelle parole di Gesù (Gv. 10, 27-30) troviamo l’eco di quella rivelazione profetica, specialmente nella polemica contro le cattive guide del popolo di Dio. La vicenda di Israele mette in evidenza come all’agire profetico del Signore si affianca l’opera di un inviato che agisce in favore del popolo, guidandolo secondo il volere ma soprattutto secondo il cuore di Dio.

Riconoscere ed essere riconosciuti

Nella seconda parte del discorso sul buon pastore, l’attenzione è principalmente indirizzata alla relazione esistente tra noi e Gesù: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco” (v. 27). Riprendendo quanto già esposto nella similitudine iniziale (10, 1-5), qui Gesù sottolinea che le pecore ascoltano e seguono solamente chi riconoscono come “il pastore”, colui che le pasce, le cura e le difende, poiché è soltanto lui che le conosce una a una e sa distinguere la condizione e i bisogni di ciascuna.

L’essere stati “riconosciuti”, visti nel profondo, è per tutti noi il principio di una liberazione, di un riscatto, di una vita nuova ed è esperienza concreta della relazione con Gesù pastore buono. Questa conoscenza è essa stessa segno del legame tra Gesù e il Padre; egli conosce allo stesso modo in cui Dio conosce intimamente il suo popolo, la sua sposa, vedendo al di là delle apparenze. Ogni volta che Israele racconta la vicenda di Davide, fa memoria di come il Signore “vede il cuore” (1 Sam. 16, 7).

La vita per sempre

Ascoltare la voce e seguire il pastore è questione di vita o di morte. “Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male perché tu sei con me” (Salmo 23); solo con il Signore siamo veramente al sicuro. E Gesù rilancia con forza: “Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno“(v.28) a significare che la posta in gioco non è tanto la sopravvivenza o il benessere quanto piuttosto l’eternità. La perdizione eterna, il cadere preda del nemico è possibile solo se si viene strappati dalla mano del Signore.

Ma Gesù ce lo assicura: nessuno può strapparci dalla sua mano poiché siamo dono del Padre a lui e “il Padre mio è più grande di tutti” (v. 29), nulla può vincere contro il suo amore: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, il suo amore è per sempre (Salmo 99).

Il dono dell’unità

Nell’affermare che “Io e il Padre siamo una cosa sola” (v. 30), letteralmente “siamo uno”, Gesù ci porta direttamente dentro il mistero della Trinità, anticipando quanto verrà detto con maggiore ampiezza e a più riprese nella solenne preghiera sacerdotale (Gv. 17). In essa troviamo insieme il motivo del custodire, proprio dell’immagine del pastore, e quello dell’unità di Gesù con il Padre.

Qui Gesù esplicita che lo scopo ultimo dell’essere custoditi, preservati dal maligno, è l’essere “uno”, a somiglianza di Gesù e del Padre. Tutta la preghiera, nell’insieme dei discorsi di addio nell’ultima cena, mantiene saldamente uniti tre versanti: la relazione di Gesù con il Padre da un lato, la nostra relazione con lui e infine tra di noi.

Nell’esistenza credente l’uno non sussiste senza l’altro: contemplare l’unità divina di Padre e Figlio è possibile solo vivendo la relazione intima con il Signore Gesù, che è vitale e feconda quando si traduce nella pratica dell’amore vicendevole, proteso verso l’unità. Allora è possibile affermare che il dono dell’unità, che proviene dallo Spirito Santo, custodisce i credenti e la chiesa tutta nel suo cammino storico verso il compimento, che è l’unione sponsale con il suo Signore.

Il vero discepolo

Se ne sentono tante a questo proposito: credenti non praticanti, praticanti non credenti; tutti si dichiarano cristiani. Il vangelo di oggi sembra fatto apposta per andare al cuore della domanda: chi è veramente un discepolo di Gesù? La risposta utilizza tre verbi.

Ascoltare: atteggiamento così difficile da praticare, con il prossimo ma anche con Dio. Sono in tanti ad affermare di “parlare con Dio”, particolarmente nel bisogno. Quanto ad ascoltare la “voce di Gesù”, le cose vanno ben diversamente. E invece Gesù comincia proprio da lì, dall’ascolto: il cristiano è uno che “ascolta la sua voce”.

Conoscere”: si tratta di una conoscenza che nasce da una relazione di amore. E’ lo sguardo di Gesù pieno di benevolenza che ha offerto a tanta gente e che continua a offrire a ognuno di noi.

Seguire”: un verbo di movimento, che implica distacco dalla situazione in cui ci si trova per andare dietro a uno, fidandosi di lui. L’esatto contrario di chi ha bisogno di “idoli” per sentirsi tranquillo. E seguiamo Gesù, il Figlio di Dio, anche quando la sua strada passa per sentieri impervi.

Ascoltare, conoscere, seguire: tre verbi di relazione, ma non di una relazione qualsiasi. Questa relazione cambia la vita. Questi sono i veri credenti.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Mino, 2022; Laurita, 2022.