Giorgio Albertazzi, “Perdente di successo”, di Luciano Lanna

“Una militanza politica vera l’ho fatta solo con i radicali di Pannella nel ’74, gli anni della battaglia per il divorzio”

Giorgio Albertazzi? Per me è stato, soprattutto, il Jekyll-Hyde del film tv “Jekyll” del 1969 e poi, nel 1973, il protagonista de “La follia di Almayer" di Conrad, sempre sulla Rai. Quindi l'interprete cinematografico di "L’anno scorso a Marienbad" di Alain Resnais e, in teatro, lo straordinario Adriano tratto dal capolavoro della Yourcenar… Per il resto, conservo gelosamente la sua autobiografia “Un perdente di successo” del 1988, dove ricorda la sua adesione giovanile alla Rsi, vissuta e sentita “come una scelta autenticamente anticlericale, libertaria e anticonservatrice”, ma anche i due anni in prigione da ex ragazzo di Salò trascorsi leggendo Marx, Engels e i classici dell’anarchia. Nel 2004, da caporedattore di Ideazione, commissionai e pubblicai una lunga intervista con Albertazzi realizzata da Fulvia Galli della Loggia (“Il mio sogno? Una destra progressista” in “Ideazione” 1/2004). A seguire alcune citazioni da questa intervista…

“Una volta sono andato a presentare un libro e sui muri di Ravenna c’era un manifesto in cui si diceva ‘non andare a vedere Albertazzi, è fascista’. Ma la piazza era però piena… Io personalmente mi considero un ‘anarchico di destra’. E in realtà sono profondamente anticomunista, l’unica matrice che mi riconosca. Una militanza politica vera l’ho fatta solo con i radicali di Pannella nel ’74, gli anni della battaglia per il divorzio”. “Purtroppo bisogna dire che la sinistra frequenta i teatri molto più della destra. Bertinotti viene sempre a vedermi a teatro. Nella maggioranza dei casi, invece, i politici di destra non si occupano di cultura, non seguono, non vedono e rimangono fuori dai processi della cultura e dell’immaginario. Non si appassionano perché ritengono che la cultura non paghi politicamente. Guardando quello che fanno nel teatro, alle nomine catastrofiche, al loro eccessivo liberalismo, viene anche qualche sospetto. Viene da dubitare che non sia proprio il loro mestiere. Eppure, un tempo non era così. La cultura veniva proprio da certi ambienti intellettuali. Quelli in cui non c’era conservazione e in cui tradizione e innovazione marciavano insieme. Ma nel secondo dopoguerra tutto questo si perdette…”.

“Bisogna capire che non si va avanti con la logica dei bilanci e dell’economia. Bisogna recuperare semmai la tradizione di D’Annunzio a Fiume, di Giovanni Gentile, di Marinetti. La tradizione che sa prefigurare immagini per il futuro. Occorre rivendicare fino il fondo l’idea di progresso, togliendola alla sinistra. Progresso è dinamismo, futuro. Conservazione è invece staticità, morte. Miller diceva di non essere stato abbastanza conservatore per essere comunista. E Flaiano aggiungeva che gli sarebbe anche piaciuto essere comunista ma che non se lo poteva permettere, costava troppo”.

*Foto di Sandro Chillemi (SpartacuS – Photos)

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