Hotspot, da parola agognata a parola temuta

di Massimo Persotti

Fino a qualche tempo fa, per tutti noi che viviamo di web e connessioni, 'Hotspot' identificava un punto di accesso ad internet dove è possibile collegarsi tramite rete WiFi.

Secondo alcuni dati di qualche tempo fa, in Italia ci sarebbero oltre 10mila hotspots (fonte: CheFuturo 2014) con la Lombardia capofila (ben un quinto) e Milano in testa tra le città con 370 postazioni a precedere Roma con 176.

Per chi ama il wifi free, la parola Hotspots è una sorta di mantra, ma anche una parola in grado di misurare la modernità e – senza esagerare troppo – la democraticità della nostra società.

Come recita la Garzanti linguistica, 'Hotspot' è però un punto caldo che in geologia ha a che fare con le aree vulcaniche (ve ne sarebbero oltre 50 nel mondo) e, nel significato comune, richiama un luogo pericoloso.

Chissà se i burocrati dell'Unione Europea hanno pensato a questo significato quando hanno deciso di identificare con 'hotspots' i nuovi centri di accoglienza dei migranti e di identificazione dei richiedenti asilo.
Il concetto è ben spiegato a pagina 6 della nuova Agenda europea sulle migrazioni presentata ieri dalla Commissione UE. Si parla, appunto di un nuovo approccio 'hotspot', che consentirà a Agenzia UE per il diritto d'asilo, Frontex e Europol di lavorare a stretto contatto e con più efficacia con gli Stati membri per identificare, registrare e 'schedare' i migranti in arrivo.

Insomma, sarà un nuovo approccio, sarà una nuova agenda, ma la terminologia resta sempre quella all'insegna dell'emergenza e del disagio: se il luogo dove far confluire i migranti è definito, letteralmente, una 'zona calda', immaginiamo con quale ansia e timore sarà vissuta dai cittadini la identificazione di questi nuovi centri.
 

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