Religione

Il discorso missionario: istruzioni per la missione

Il brano del vangelo (Mt. 10, 37-42) di questa domenica è tratto dal “Discorso Missionario”, in cui Gesù dà ai Dodici le istruzioni da seguire per l’annuncio per cui li sta inviando. In quest’ultima parte del suo discorso, emerge in modo particolare lo stretto legame tra il maestro e il discepolo: essi, nell’espletare la “missione”, attireranno su di sé le stesse reazioni che ha causato Gesù.

Chi non è degno

Vediamo alcune caratteristiche di questo legame; all’inizio troviamo tre affermazioni che indicano chi “non è degno” di Gesù. La prima, “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me” (v. 37), va alla radice del rapporto umano fondamentale per ogni persona, quello con i propri genitori, che non è difficile definire “istintivo”. Gesù fin dall’inizio pone come necessità l’amore per sé come necessariamente più grande di quello nei confronti di coloro da cui si riceve la vita, la cura, la protezione, il cibo e l’affetto umanamente più grande.

Lasciare il nido familiare, a un certo punto della propria vita, è normale, ma qui si parla di altro e cioè di mettere “in secondo piano” l’amore per i propri genitori, almeno rispetto a quello per Gesù. Sebbene dare priorità all’amore per Gesù non annulli il quarto comandamento, né tantomeno sia minimamente interpretabile come una banalizzazione dell’amore per i genitori, è evidente che Gesù non si accontenti di un amore “condiviso”.

La seconda caratteristica, “chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (v. 37), è complementare alla prima: anche l’amore per i figli è istintivo, e probabilmente è anche più totalizzante di quello per i genitori visto che normalmente i genitori investono gran parte delle loro energie affinché i figli stiano bene, anzi stiano meglio di come sono stati loro. L’immagine dell’amore della madre viene usata, ad esempio, proprio per indicare l’amore “compassionevole” di Dio, nella stessa Bibbia.

La terza, “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me” (v. 38), verrà ripresa più avanti subito dopo la confessione di Pietro e il primo annuncio della passione. Questa è, probabilmente, la più difficile da realizzare delle tre condizioni, perché prendere la propria croce vuol dire accettare la logica di un amore per Dio, di un’obbedienza a Dio, che è talmente grande da accettare anche il pericolo della sofferenza per sé, anziché cercare i propri obiettivi, la propria via per la felicità, e questa è posta come condizione per poter essere degni di Cristo.

Tutte queste condizioni in realtà vanno a toccare le fondamenta stessa dell’uomo: il legame con i propri genitori, con i figli e la ricerca dei propri obiettivi e della propria felicità terrena sono dimensioni umane difficili da mettere in secondo piano, anzi non di rado costituiscono quasi uno scopo assoluto della vita. Gesù invece ci chiede di porle in secondo piano.

Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (v. 39): questa condizione del discepolo di Gesù prosegue sulla linea della terza affermazione; essa esplicita come l’atteggiamento autoreferenziale non sia la via per la salvezza, ma la strada sia quella dell’amore incondizionato per Dio.

Accoglienza e missione

La seconda parte del nostro brano (vv. 40-42) riprende il tema dell’accoglienza dei discepoli da parte delle comunità da cui loro si recheranno. I discepoli, non agendo di propria iniziativa ma in quanto inviati da Gesù, ne sono, di fatto, ambasciatori, così come lui lo è del Padre che lo ha mandato. Accogliere i discepoli significa accogliere Gesù e quindi Dio stesso. Il tema dell’accoglienza era molto importante nella vita delle prime comunità cristiane, soprattutto nei confronti dei discepoli peregrinanti. Accogliere un discepolo porta con sé le ricompense promesse al discepolo stesso, perché l’accoglienza diventa, di fatto, collaborazione con la sua missione.

“Chi avrà perduto la propria vita, la salverà”

Salvare la propria vita è scegliere di vivere per ciò che conta. E’ liberarsi dal desiderio di possedere la propria vita, per essere persone libere da se stesse e per questo capaci di prendersi a cuore gli altri. Non è facile comprendere questo. Occorre fidarsi del Signore e della sua parola: occorre seguire! Seguo, e metto i miei piedi nei passi del Signore: questo mi dà sicurezza. Seguo, e sperimento la gioia di vivere con lui, perché ho imparato a volergli bene. Seguo, e a poco a poco la mia vita prende la fisionomia della sua, fino al giorno in cui il mio volto avrà assunto i tratti del suo, il mio pensiero si confonderà con il suo, la mia scala di valori sarà la sua.

Seguo, e sto dietro al Maestro, anche quando mi verrebbe voglia di fare come Pietro e di spiegargli che sta sbagliando, perché la croce è fallimento, è dolore, è fine. E io invece cerco il successo, la gioia, la pienezza, un nuovo inizio. Solo nel coraggio della fedeltà potrò scoprire il segreto della vita secondo Gesù; chi perde la vita, la trova; chi ha lasciato campi, moglie, figli… riceve già qui, moltiplicato per cento, ciò che ha lasciato.

Al di là dei rapporti di sangue

L’amore per la propria famiglia, sia da genitore che da figlio, non soppianta l’amore dovuto a Dio. Gesù non mette in discussione l’attaccamento, l’affetto nei confronti dei propri familiari, l’accaparramento da parte dei propri congiunti, la solidarietà limitata ai legami di sangue. Gesù, infatti, non viene dopo la famiglia, ma prima. E la relazione con lui risulta ancor più fondamentale. La famiglia è una realtà magnifica quando si inscrive nel piano d’amore di Dio; in caso di conflitto, Dio deve essere preferito. La famiglia non è al servizio soltanto dei suoi membri, deve aprirsi a una visione più larga, a coloro che cercano di vivere il Vangelo e, soprattutto, ai più umili e ai più poveri. Contano così poco agli occhi del mondo!

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Busia, 2023; Bignardi, 2023; Laurita, 2023.

Redazione

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