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Il Pastore e il gregge: Gesù e i suoi

Il discorso sul buon pastore presenta il genere letterario proprio di Giovanni: dal pensiero reale a quello simbolico. La realtà rimane sempre in primo piano, e l’immagine simbolica le è subordinata. Gesù si rivela come buon pastore (v. 11). Un gesto lo caratterizza: egli dà la propria vita per le sue pecore, affinché abbiano la vita in abbondanza. Una simile bontà è tipica dell’unico Pastore: solo Gesù infatti può fare del sacrificio della propria vita un dono di vita per i suoi fedeli. Tutte le altre qualità scompaiono di fronte a questo atto incomparabile.

Esse sono segnalate indirettamente quando viene tratteggiata l’immagine del mercenario che serve di contrasto al buon pastore. Il buon pastore non è un guardiano salariato, ma un vero pastore,, il loro padrone, il quale ha cura delle pecore, poiché gli sta a cuore la loro sorte; davanti al pericolo non scappa ma rimane loro vicino. Il mercenario, quando vede arrivare il lupo, fugge: la sua mancanza è una colpa di omissione, un’insufficienza di sollecitudine pastorale. Egli diventa così la caricatura del Buon Pastore. Certamente l’evangelista sta accennando ad abusi esistenti nella comunità: indubbiamente i suoi capi sono soltanto “ispettori” per pascere la chiesa di Dio, e tuttavia non debbono comportarsi da mercenari.

Per la seconda volta Gesù si definisce Buon Pastore (v. 14): perché conosce i suoi e i suoi lo conoscono. Il rapporto di fiducia esistente tra il pastore e le pecore viene messo in luce dal verbo “conoscere”. Non si tratta di una conoscenza intellettuale ma reale e concreta: la conoscenza del Buon Pastore si manifesta in varie maniere: Egli cerca le pecore, le chiama per nome, ne ha cura, anzi, dà loro vita sacrificando la propria.

A loro volta le pecore conoscono il loro pastore, poiché ne distinguono e ascoltano la voce, e lo seguono. La conoscenza che lega Gesù e i suoi ha dunque le medesime proprietà della conoscenza vicendevole tra Dio e il suo popolo nell’Antico Testamento. Questa conoscenza crea tra Gesù e i suoi una comunione indissolubile, e ne è anche l’espressione viva. In definitiva, questa comunione si fonda sull’oblazione della vita del pastore: “Io offro la mia vita per le pecore” (v. 15).

Nella coscienza di Gesù, la comunione intima col Padre si collega con la sua funzione di Buon Pastore, che è quella di guidare il gregge: la conoscenza del Padre lo sceglie e lo chiama alla missione di pastore, e Gesù conosce il Padre accettando e portando a termine la missione da lui affidatagli. Mediante l’offerta della sua vita, Gesù completa la conoscenza del Padre e dei suoi; essa è al tempo stesso risposta al comando del Padre e chiamata elettiva rivolta ai suoi: il Buon Pastore dà la vita per le sue pecore. L’orizzonte dell’attività del Pastore si allarga poi ad “altre pecore” (v. 16): “E ho altre pecore che non sono di questo ovile: anche queste io devo condurre…”.

E’ caratteristico del Vangelo di Giovanni proiettare lo sguardo sul futuro della Chiesa, partendo dalla situazione di Gesù. Vediamo delinearsi nell’attività del Pastore due periodi in cui questa attività viene esercitata in campi diversi. Il primo periodo è legato ad un luogo (la porta dell’ovile), e il compito essenziale del Pastore è allora di fare uscire le pecore dall’ovile: si tratta del periodo della vita terrena di Gesù. Il secondo periodo, che segue l’”esaltazione” legata all’offerta della sua vita, concerne le pecore venute da ogni dove: è il tempo della chiesa, che vive sotto la guida del Signore glorificato. All’idea di “guidare” subentra quella di “ascoltare”. Gesù invita ad entrare nella chiesa non più direttamente ma attraverso altri, mentre egli resta pur sempre la guida dei suoi. Questi non possono più seguirlo direttamente, ma continuano ad ascoltarne la voce, poiché la sua parola si fa sentire nella chiesa: “Si farà un solo gregge e un solo pastore”: si tratta della realtà post-pasquale dell’unica chiesa di Gesù Cristo.

Il gregge si compone di coloro che Gesù ha chiamato durante la sua vita terrena e di quelli che giungono alla fede dopo la sua glorificazione. Il principio di unità di quest’unico gregge è l’unico Pastore, Gesù, che ha dato la sua vita per creare quest’unità. Il Padre lo ama proprio per questa oblazione; la volontà salvifica del Padre, infatti, è che il mondo riceva la vita mediante il sacrificio del Figlio. E’ ovvio dunque che il Padre ami colui il cui cibo è di fare la volontà e l’opera del Padre.

Gesù, nei versetti conclusivi, afferma: “poiché ho il potere di dare la vita e di riprenderla di nuovo”(v. 18): siamo colpiti dall’espressione che passa dal “dono” alla “ripresa” della vita, e dalla maniera vigorosa con cui è sottolineata la libertà d’azione di Gesù nella morte e nella risurrezione. Esse sono strettamente legate come due tappe di un unico avvenimento, come parti di un’unica missione: il Buon Pastore che ha dato la propria vita non è rimasto nello stato di morte, ma è vivo per sempre e continua ad essere l’unico Pastore che guida il gregge e gli fa dono della vita, non solo perché le pecore gli stanno a cuore, ma anche perché volontariamente obbedisce al comando del Padre. Il discorso si conclude volutamente con un richiamo alla relazione di amore e di fiducia tra Gesù e il Padre, che è fonte di ogni unità nella chiesa del Cristo.

Rivelandosi come Buon Pastore, Gesù vuol dirci che Lui solo può essere nostra guida nella vita e nostra difesa contro tutti i pericoli. Il suo amore vigilante ci circonda; con la morte e la risurrezione ci ha preceduti nella vita, affinché possiamo seguirlo. Non possiamo comprendere il Cristo senza il Padre che ce l’ha dato come Pastore. Tutto ciò che fa il Cristo come Buon Pastore, è compiuto in virtù del comando e del potere ricevuti dal Padre. La vita eterna è conoscere il Cristo e colui che l’ha mandato: orbene, il Cristo è venuto affinché abbiamo tale vita.                                                                                                                  

Bibliografia consultata: Kiefer, 1970.

Redazione

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