Il vincolo di prezzo sugli immobili costruiti in edilizia agevolata

Chi ha venduto a prezzo di mercato oggi può evitare la restituzione della differenza di prezzo

La soluzione del legislatore sulla vexata quaestio del vincolo di prezzo sugli immobili costruiti in edilizia agevolata (c.d. aree PEEP). Chi ha venduto a prezzo di mercato un immobile in precedenza acquisito in regime di edilizia agevolata, oggi può evitare la restituzione della differenza di prezzo procedendo direttamente all’affrancazione del bene. Il Legislatore italiano, presumibilmente sensibilizzato dalle recenti vicende giudiziarie, nonché dal dibattito giuridico accesosi sul tema negli ultimi anni, è intervenuto, allo spirare del 2018, per tentare di risolvere la vexata quaestio delineatasi a seguito della nota pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (n.18135 del 16 Settembre 2015) in ordine alle conseguenze scaturenti dal mancato rispetto del vincolo di prezzo nelle compravendite aventi ad oggetto immobili ricadenti in aree P.E.E.P. (Piani per l’Edilizia Economica e Popolare).

Per poter comprendere appieno la portata di una simile “mini riforma” in materia, è opportuno ricordare il “terremoto” giuridico prodottosi, dal Settembre del 2015, a seguito della citata pronuncia con cui la Suprema Corte, definendo il contrasto giurisprudenziale protrattosi per molti anni tra diverse sezioni semplici, ha statuito che, nell’ambito degli immobili realizzati in regime di edilizia agevolata (Legge 167/1962), solo relativamente a quelli riconducibili alla Legge n. 865/1971, il vincolo di prezzo originario non è decaduto per effetto dell’eliminazione dell’inalienabilità di tali beni ma continua a gravare sugli stessi, anche relativamente alle vendite successive alle prime, salvo che si sia provveduto alla c.d. affrancazione; sul punto vedasi l’articolo già pubblicato il 6 luglio scorso.

Come si è avuto modo di osservare, fino a quel momento la giurisprudenza maggioritaria della stessa Cassazione e per l’effetto tutti gli operatori del settore (Notai, Banche, Agenti immobiliari, ecc.), avevano ritenuto che tale vincolo di prezzo fosse sussistente solo relativamente al primo passaggio di proprietà (dal costruttore al primo acquirente o al socio assegnatario della cooperativa) e nel limite temporale di 5 anni dallo stesso, con la conseguenza che moltissimi immobili, originariamente costruiti in regime di edilizia agevolata, sono stati negli anni venduti a prezzo pieno di mercato di gran lunga superiore. In tale contesto, la richiamata Sentenza delle S.U., aveva modificato radicalmente la prospettiva giuridica – e conseguentemente economica – della questione, facendo sì che, pur restando valide le compravendite nella loro essenza, il venditore divenisse obbligato alla restituzione, a favore dell’acquirente, della parte di prezzo incassata in eccedenza rispetto a quello vincolato.

A fronte di un panorama così delineato, il Tribunale di Roma (con la pronuncia del 17.4.2018) aveva, però, affrontato per la prima volta la questione sotto un profilo diverso, apparentemente contrastante con il diktat della Suprema Corte anche se in realtà non necessariamente incompatibile con esso, fornendo un’interpretazione che, pur partendo e prendendo atto della nullità parziale che scaturisce dall’interpretazione sancita dal Giudice di legittimità, mirava a contenerne le conseguenze pratiche, addivenendo ad una soluzione concreta “intermedia”, ritenuta maggiormente corrispondente ai principi di giustizia sostanziale.

Come già illustrato nel dettaglio con un precedente articolo, il Tribunale capitolino, considerato che l’acquirente di tale tipologia di immobile aveva comunque la possibilità di rimuovere il vincolo in questione attraverso l’esborso di un importo notevolmente inferiore rispetto alla differenza di prezzo rivendicabile nei confronti del suo dante causa, aveva ritenuto che l’eventuale azione giudiziaria in tal senso avrebbe potuto dare luogo ad un arricchimento ingiustificato, al punto da integrare addirittura un’ipotesi di “abuso del diritto”; da ciò la decisione di riconoscere al ricorrente, non l’intera differenza di prezzo, ma solo l’importo corrispondente alla somma necessaria per portare a termine la procedura di affrancazione presso il Comune di Roma, al fine di ricondurre ad equità la forma di risarcimento comunque spettante al proprietario attuale (che, a suo tempo, ha pagato l’immobile al prezzo pieno di mercato senza poterlo oggi rivendere con la stessa libertà).

La novità di questi giorni è che il Parlamento con l’art. 25 undecies della Legge n.136, 17 dicembre 2018 (di conversione del D.L. n.119, 23 ottobre 2018,) ha modificato l’art. 31 della Legge n.448/1998 sostituendo il comma 49 bis ed inserendo, dopo il comma 49 ter, un nuovo comma 49 quater ed emanando, in tal modo (finalmente), una specifica disciplina sul punto.

In buona sostanza le modifiche più rilevanti sono due. La più importante è quella che, in sintesi, conferma l’impostazione fornita dal Tribunale di Roma e mitiga definitivamente le conseguenze pratiche della pronuncia della Cassazione del 2015, prevedendo che la rimozione del vincolo (sempre mediante la procedura c.d. di affrancazione) estingue il diritto all’eventuale pretesa di rimborso della differenza tra il prezzo convenuto e il prezzo vincolato. Coerentemente con tale modifica, la novella sancisce la legittimazione, ad effettuare la procedura di affrancazione, di tutti i soggetti (persone fisiche) “che vi abbiano interesse”. In termini più semplici, da oggi il venditore, che rischiava di subire una causa ed all’esito una condanna pesantissima alla restituzione della differenza di prezzo (a volte di notevole entità), può evitare, o meglio prevenire, direttamente tale rischio procedendo esso stesso alla richiesta di rimozione del vincolo, ovviamente sostenendone i costi ma senza, quindi, dover versare tale importo all’acquirente – attuale proprietario che, pertanto, cessa di essere l’unico soggetto abilitato in tal senso. Al riguardo merita una menzione particolare il secondo comma del citato art.25 undecies (testualmente: “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche agli immobili oggetto dei contratti stipulati prima della data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”) che sancisce la retroattività di tale riforma, senza la quale – va detto – l’efficacia concreta della stessa sarebbe stata sostanzialmente vanificata se si considera che la quasi totalità degli immobili interessati riguarda compravendite antecedenti il Settembre del 2015 (atteso che solo prima della sentenza a S.U. si era diffusamente incorsi in tale violazione).

La seconda novità, di rilevanza invece più sfumata (al punto di suscitare interesse più che altro negli operatori del diritto), attiene alla modifica della qualificazione giuridica della parziale invalidità della compravendita, relativamente alla differenza di prezzo, in pendenza (e quindi fino alla conclusione) della procedura di affrancazione. Mentre dalla pronuncia della Suprema Corte scaturiva una “nullità” parziale dell’atto (nei termini suesposti) la riforma specifica trattarsi di “inefficacia” (testualmente “non produce effetti”). Una precisazione che poco sposta sotto il profilo sostanziale poiché la differenza di prezzo rimane comunque rivendicabile dall’acquirente – seppur a diverso titolo – in mancanza della rimozione del vincolo, ferme però restando le conseguenze che potrebbero generarsi in ambito processuale sulle cause in corso (è stato, ad esempio, già ipotizzato il rigetto delle domande fondate sulla nullità, anziché sull’inefficacia, forse però sottovalutando sia la possibilità di precisazione della domanda in corso di causa, specie se scaturente da una riforma sopravvenuta, sia la circostanza che l’inefficacia costituisce un minus rispetto alla nullità con la conseguenza che il Giudice adito potrebbe comunque ritenerla ricompresa in essa).

Un’ultima considerazione s’impone poi per ciò che attiene la legittimità costituzionale di una siffatta norma retroattiva, non potendosi dimenticare che più volte la Corte Costituzionale è intervenuta a modificare riforme di portata similare. Al riguardo va ricordato come il Giudice delle leggi, meno di un anno fa (con la sentenza 30 gennaio 2018, n.12) ha sancito il principio secondo cui: “per costante giurisprudenza costituzionale, corrispondentemente alla giurisprudenza della Corte Edu, ancorché non sia vietato al legislatore (salva la tutela privilegiata, riservata alla materia penale dall’art.25 secondo comma, Cost) emanare norme retroattive con riferimento alla funzione giurisdizionale, non può essere consentito di risolvere, con la forma della legge, specifiche controversie, violando i princìpi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e concernenti la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, determinando lo sbilanciamento tra le due posizioni in gioco”.

Sul punto deve, però, osservarsi come la riforma in questione potrebbe anche andare esente da una siffatta censura, atteso che sembrerebbe avere il merito di ricondurre la vexata quaestio ad una soluzione più equa e quindi più aderente a criteri di giustizia sostanziale, evitando (come illustrato) il rischio di una locupletazione degli acquirenti e schivando in tal modo lo “sbilanciamento” posto alla base del principio enunciato; ciò però – va detto per dovere di completezza – omettendo comunque di risolvere il profilo contrapposto della “speculazione” a suo tempo operata dai venditori attraverso l’alienazione di beni che la normativa aveva destinato a fini ben diversi, proprio come evidenziato dalla S.U. nella nota pronuncia del 2015.

Avv. Marco Tocci

Studio Legale Tocci

avvmarcotocci@studioprofessionaletocci.it

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