Intervista:Roberto Gervaso, 5 motivi per ammalarsi di depressione

Il papillon è un marchio di fabbrica, l’ironia lo ha reso celebre; Gervaso racconta la sua lotta contro la depressione

Ha scritto numerosi saggi, innumerevoli aforismi, biografie e opere di ricostruzione storica,  tra cui la monumentale "Storia d’Italia" assieme a Indro Montanelli, il suo papillon è un marchio di fabbrica, la sua ironia raffinata lo ha reso celebre e uno dei giornalisti e scrittori che meglio ha saputo descrivere la cultura del nostro tempo. Roberto Gervaso racconta la sua lotta contro la  depressione, della quale parla anche nel suo ultimo libro “Ho ucciso il cane nero” (Mondadori), e ci ospita nella sua casa, ai piedi del Colosseo, assieme alla inseparabile moglie Vittoria.

Che cos’è stata per lei la depressione?

Io l’ho definita il rogo dell’anima. È uno stato di disperazione perenne e finché non ne esci ti appare incurabile, perché quando ti dicono: “ fatti coraggio”, è proprio la volontà che è malata. È un “cane nero”, come lo chiamava Churchill che soffriva di depressione bipolare, cioè un’alternanza di euforia parossistica cui segue una depressione profonda, ne erano ammalati anche Vittorio Gassman e il mio amico Indro Montanelli.

È una malattia che tocca individui con uno spiccato intelletto?

No, dieci milioni di italiani soffrono di depressione. Io parlo di scrittori, ma chissà quanti impiegati e operai si sono ammalati. È una patologia sociale non una malattia intellettuale. Le cause della depressione sono sempre cinque: un grave lutto, una grave malattia, la perdita del lavoro, il divorzio e il trasloco. Per me spesso è stato proprio il trasloco. Ogni volta che cambiavamo casa: mia moglie Vittoria rinasceva e io cadevo in depressione. Vittoria all’inizio non capiva cosa avessi. È una malattia peggiore delle altre, perché è invisibile.

Quando ha compreso per la prima volta di esserne ammalato?

A diciannove anni. Avevo vinto una borsa di studio e andai negli Usa, che allora era come andare sulla Luna. Mi sentivo abbandonato, il mio inglese era approssimativo. I miei genitori avevano appena divorziato. Mi mancava mia madre. Andai da una psicoterapeuta che mi curò con le benzodiazepine, ma la depressione mi durò quasi tre anni.

Che ruolo ha avuto il grande Indro Montanelli nella sua vita e nella sua professione?

Andando dal parrucchiere, ebbene, sì, nel 1956 anch’io avevo i capelli, iniziai a leggere il Corriere della Sera e in Terza Pagina c’era un articolo divertentissimo: “ Polli a Cinecittà” di Montanelli in cui, con molto humour, raccontava delle comparse a Cinecittà nella pausa pranzo. Da quel giorno cominciai a leggere tutti i suoi articoli e a ritagliarli. Così ho imparato il mestiere. Dopo aver conseguito la  maturità classica, mio padre mi chiese cosa volessi per premio e io dissi che volevo andare a Roma per conoscere Montanelli. Gli avevo scritto una lettera e lui mi aveva invitato ad andare a Roma. Mio padre acconsentì. Indro mi prese sotto le sue ali e mi favorì molto.

Che cosa piacque di lei a Montanelli?

La mia lettera  era piena di ironia e si capiva che volevo diventare come lui.

Anche rispetto al suo malessere Montanelli la aiutò?

Sì, mi diceva che ne aveva sofferto anche lui, che si era trovato in uno stato di totale inerzia morale e di completa letalgia spirituale, che mi comprendeva, ma che sarebbe passato.

Lei come ne è uscito?

Mi sono detto tante volte: ma perché non apro la finestra e mi butto di sotto? ma ero in uno stato di abulia tale che non l’ho fatto. Mi hanno aiutato i farmaci e il tempo, che è un grande medico, perché, come tutte le malattie, anche la depressione ha un decorso.

Un’altra fase di depressione l’ha avuta alcuni anni fa. Come mai?

La causa fu un nuovo senso di abbandono. Stavolta riguardava mia moglie. Eravamo entrambi diventati nonni, ma lei si occupava molto del nipotino e di nostra figlia, giustamente, e io mi sentivo abbandonato.

Quali sono state le donne più importanti della sua vita?

Mia madre e mia moglie sono stati gli specchi della mia vita. Mia moglie si occupa di tutte le cose quotidiane, io non so fare niente. È  la più bella donna che abbia mai conosciuto. Sa che ai suoi tempi è stata modella per Valentino? Era un misto tra Jennifer Jones e Ava Gardner, con un carattere forte e dominante. Un vero pitbull di razza.

Ha intervistato tante illustri personalità: Jorge Luis Borges, George Simenon, Salvador Dalì, Arthur Miller e altri. Ci regala un aneddoto?

Una lezione di vita me la diede lo scrittore George Simenon dopo che morì sua  figlia suicida a  27 anni. Prima di questo lutto, Simenon viveva in un borgo tutto suo con persino all’interno una sala operatoria, perché era patofobo. Sulla sua scrivania aveva  l’elenco telefonico e una guida di Parigi, i suoi due strumenti di lavoro, infatti nessuno meglio di lui ha descritto Parigi. Dopo la morte della figlia, lasciò il borgo e andò  a vivere in una casetta a schiera alla periferia di Losanna, lì aveva sparso le ceneri di sua figlia. Gli chiesi perché avesse lasciato tutta quella ricchezza e lui mi rispose che le cose importanti sono sempre poche e le cose superflue ti fanno perdere di vista quelle importanti.

*Foto di Franco Ferrajuolo

* Intervista pubblicata sul settimanale Visto, per gentile concessione dell'autrice.

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