L’Italia è circondata dal mare, ma importa circa il 70% del pesce

I pesci più “imitati” sono i merluzzi, i dentici, i gamberi, il pesce spada e le cernie, imitate dal pangasio del Mekong o le sogliole, imitate dall’halibut dell’Atlantico

L'Italia è circondata dal mare, eppure importa circa il 70% del pesce che viene consumato. Ma quale pesce arriva dall'estero sulle nostre tavole? Cioè la denominazione commerciale del pesce che acquistiamo, corrisponde veramente a quella della specie ittica precipua? E la qualità? Queste discriminanti sono fondamentali per la determinazione del prezzo. Per questo le frodi in commercio sono dietro l'angolo, e i pesci più "imitati" sono i merluzzi, i dentici, i gamberi, il pesce spada, ma anche le cernie che vengono imitate dal pangasio del Mekong o le sogliole che vengono imitate dall'halibut dell'Atlantico. Se ne è parlato all'EXPO di Milano, dove è stato presentato un progetto molto interessante da parte dell'UNIVERSITÀ DI SIENA, che potrebbe rappresentare la soluzione al problema.
 

Infatti i ricercatori dell'università toscana hanno presentato il progetto FISH TRACK che, sfruttando la biologia molecolare, scopre senza ombra di dubbio, le più comuni frodi ittiche che spacciano pesci di scarso valore per pesci di qualità sopraffine che, ovviamente, vengono venduti a prezzi elevati. Oppure, queste frodi, vanno ad ingannare i "gonzi" che si credono furbi e vanno in quei locali che servono pranzi o cene "Tutto Pesce", a 30 € o giù di li, pensando di mangiare in abbondanza pesce di qualità. Invece non solo il pesce è di scarsa qualità ma è cucinato in maniera sofisticata in modo da "coprire la magagna" come si dice a Roma. Personalmente sono contro gli chef che fanno una cucina troppo cucinata, soprattutto con il pesce e la carne. Se la materia prima è di eccellente qualità non ha bisogno di essere cucinata a lungo ma solo "cotta bene", come nel piatto della foto. Quindi questo sistema darà lo stop ai pesci africani spacciati per pesce persico o al pangasio del Mekong, spacciato come cernia o all'halibut scambiato per sogliola. Quando poi il prodotto non è commercializzato intero ma sotto forma di filetti già puliti o preparazioni come sughi o salse, allora la confusione regna sovrana.
 

LA SOLUZIONE. Il progetto messo a punto dal Dipartimento di Scienze della Vita dell'Università di Siena in collaborazione con l'Istituto per lo Studio degli Ecosistemi del CNR di Firenze e con il finanziamento della Regione Toscana, permetterà di rivelare le impronte digitali del pesce. L'operazione, chiamata BARCODING, rileverà il DNA, così da rivelare sia la provenienza geografica del prodotto che la sua esatta specie ittica.
I primi risultati sul mercato italiano indicano che oltre il 50% delle cernie analizzate non sono cernie ma pesci spacciati per cernie. Così come gamberi e gamberetti sgusciati. E il problema non riguarda solo l'aspetto commerciale ma anche quello sanitario, con il pericolo di incappare in specie rischiose per la salute e non solo per il portafoglio.
 

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