Religione

La risurrezione dei morti: il Dio dei vivi

Nel tempio di Gerusalemme Gesù si intrattiene quotidianamente istruendo il popolo, che accoglie con entusiasmo la sua Parola, e attirando su di sé la gelosia dei capi dei sacerdoti, degli scribi e delle autorità popolari che tramano per eliminarlo. Non si sottrae al confronto con i suoi avversari: i capi dei sacerdoti e gli scribi che cercano in tutti i modi di coglierlo in fallo e di raccogliere accuse sul suo conto, per screditarlo al cospetto dell’opinione pubblica e presentarlo all’autorità imperiale come un pericoloso sedizioso. Gesù è abile a eludere i loro tranelli, evidenziando l’inconsistenza delle loro argomentazioni (Lc. 20, 27-38).

Di chi sarà moglie? (v. 33)

Dopo gli scribi, i farisei e gli erodiani è il turno dei “sadducei”, appartenenti all’aristocrazia cittadina, i quali negano la possibilità che possa verificarsi la risurrezione dei morti alla fine dei tempi. Secondo la loro prospettiva, l’anima non è destinata a sopravvivere dopo la morte, perché perisce insieme al corpo.

Nei confronti di Gesù assumono un atteggiamento deferente, riconoscendo l’autorevolezza del suo insegnamento con lo scopo di sottoporgli una questione relativa al tema della risurrezione. In base alla prescrizione mosaica detta del “levirato” contenuta in Dt. 25, 5-10, se un uomo sposato muore senza aver avuto figli, è previsto che suo fratello, o un suo parente prossimo, possa unirsi con la vedova per assicurare al defunto la discendenza.

I sadducei sottopongono a Gesù il caso di una donna, che nel corso della sua via terrena si è unita a sette fratelli senza mai ottenere un figlio; “di chi sarà moglie nella vita futura?” (v. 33). A essere posta in questione non è la legge mosaica, bensì l’attendibilità della risurrezione. Ai sadducei interessa dimostrare, anche avvalendosi delle Scritture, che la credenza nella risurrezione finale è destituita di ogni fondamento.

Non prendono né moglie né marito (v. 35)

La replica di Gesù alla questione sollevata dai sadducei affronta dapprima il caso della donna che muore priva di figli, per poi soffermarsi sul motivo della risurrezione finale. Gesù introduce un netto distinguo tra “i figli di questo mondo” e “quelli che saranno giudicati degni della vita futura” (vv. 34-35). I primi prendono moglie e marito, così come stabilito nel progetto originario della creazione: Dio affida all’uomo e alla donna, creati a sua immagine e somiglianza, la custodia del creato, chiedendo loro di essere fecondi e moltiplicarsi.

L’unione tra il marito e la moglie è iscritta nel disegno originario divino. Tuttavia, lo scenario muta radicalmente dopo la morte: non v’è continuità tra la vita terrena e quella ultraterrena; non è prevista alcuna unione per chi sarà ritenuto degno della vita celeste. La condizione futura dell’uomo e della donna dipende dal giudizio divino: spetta a Dio giudicare se un uomo o una donna sono degni della vita eterna.

La risurrezione dei morti è dono di Dio, riservato a coloro che ne sono trovati degni, destinati a non morire più perché diventeranno simili agli angeli (v. 36). Il tratto più originale, però, non consiste solo nell’accostare i redenti alla condizione degli angeli, ma soprattutto nel definirli “figli di Dio, essendo figli della risurrezione” (v. 36). Chi sarà stimato degno di prendere parte alla risurrezione alla fine dei tempi, potrà condividere con Gesù, il Figlio unigenito, la condizione filiale, nel senso di appartenenza piena e definitiva a Dio.

Il Dio dei vivi (v. 38)

Gesù ricorre alle Scritture per dimostrare la verità della risurrezione dei morti; cita il passo di Es. 3, 6.15, in cui si descrive Mosè mentre avanza verso il roveto, e la teofania (apparizione) alla quale assiste, in cui il Signore si rivela come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” (v. 37). Il riferimento ai tre patriarchi è indicativo dell’alleanza che Dio ha stipulato con loro; è un patto che non ha cessato di essere in vigore, perché il Signore vive e anche gli antichi padri vivono per sempre alla sua presenza.

E questa era anche l’opinione diffusa al tempo di Gesù: cioè, che i patriarchi sono risorti e vivono al cospetto di Dio. Gesù deduce un principio generale da un unico versetto: la citazione di Es. 3, 6 consente di mostrare non solo l’infondatezza della tesi sadducea, ma anche di affermare che sebbene i patriarchi e tutti gli altri uomini muoiano secondo una prospettiva umana, essi non sono morti ma vivi “dal punto di vista di Dio e dato che egli concede loro la vita”.

I sadducei non replicano; a prendere la parola sono, invece, alcuni degli scribi presenti, che concordano con le argomentazioni sostenute da Gesù. Nessuno ha più il coraggio di interrogarlo: infatti, negli episodi che seguono, Gesù pronuncia discorsi senza interlocutori.

L’errore dei sadducei è credere che la relazione con Dio ha i connotati del provvisorio, dell’effimero: dura solo quanto dura la vita terrena, poi tutto è finito. L’Eterno non darebbe alcuna consistenza al suo amore: esso svanirebbe come neve al sole, dal momento che il suo oggetto, l’essere umano, è creatura fragile, destinata a scomparire.

Da questa visione emergono una “filosofia di vita” e un “comportamento” che Gesù non può accettare: Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. E’ un Dio che ama la vita: per questo l’ha creata e continua a chiamare all’esistenza. E’ un Dio che si impegna per la vita, ma per una vita piena ed eterna. Al di là di qualsiasi nostra immaginazione e congettura.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Landi, 2022; Laurita, 2022.

Redazione

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