La risurrezione di Lazzaro

La vita ha sconfitto la morte

La risurrezione di Lazzaro (Gv. 11, 1-45) si trova alla fine del ministero pubblico di Gesù. Questo miracolo che Gesù offre ai giudei nella lotta tra la luce e le tenebre è il segno più importante, poiché non si tratta più di guarire o di moltiplicare i pani, bensì di risuscitare, con un potere che solo Dio possiede in proprio: “l’ultimo nemico che sarà distrutto è la morte”, dirà Paolo ai cristiani di Corinto (1 Cor. 15, 26). La risurrezione di Lazzaro introduce al discorso di addio e alla Passione, perché, secondo il vangelo di Giovanni, è a motivo di essa che il sinedrio decide definitivamente della condanna a morte di Gesù.

Il contesto del miracolo

Le feste giudaiche occupano un posto importante nel Vangelo di Giovanni. La dedicazione del Tempio celebrava Dio presente in mezzo al suo popolo, in atto di raccoglierlo nell’unità e di dargli la vita. Il tema della vita viene sviluppato con l’episodio della risurrezione di Lazzaro: “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25). Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo della fede in Gesù inviato dal Padre. La fede in Gesù dà la vita eterna: la risurrezione di Lazzaro dimostra che Gesù è il Figlio unico che Dio ha mandato nel mondo e che la vita appartiene a Dio. Ma sarà precisamente questa la causa della sua condanna a morte.

Analisi e commento

Il fatto si svolge a Betania, a circa due chilometri da Gerusalemme, dove oggi viene mostrata la tomba di Lazzaro, scavata nella roccia. Il villaggio è quello di Marta e di Maria, note ai lettori anche per il racconto nel Vangelo di Luca (10, 38-42). Lazzaro viene designato come il fratello di Marta e di Maria: il suo nome in ebraico significa “Dio viene in aiuto” e, inoltre, è amico di Gesù, come si comprende dal pianto di Gesù di fronte alla morte dell’amico: Gesù freme, si turba e piange. Alla notizia della sua malattia, Gesù si trattiene dov’era altri due giorni, perché le sue decisioni non sono dettate da un desiderio umano, ma dalla volontà del Padre: egli afferma che la malattia di Lazzaro non è per la morte ma per la gloria di Dio. Quando decide di andare dal suo amico malato, dice ai discepoli: “Il nostro amico Lazzaro dorme, ma vado a svegliarlo (v. 11). La morte per Gesù perde in parte il suo carattere tragico quando suggella una vita felice e riuscita, nell’amicizia di Dio, che non abbandona mai coloro che ama. Gesù, segno dell’amore di Dio, ci libera dal peccato e dalla morte.

Arriviamo finalmente a Betania: Lazzaro è nella tomba già da quattro giorni. Era dunque morto quattro giorni prima, perché la sepoltura si faceva il giorno stesso della morte. Marta, la sorella di Lazzaro, rimprovera Gesù perché non ha impedito che l’amico morisse. Tuttavia manifesta una certa fiducia in Gesù, ancora legata alla presenza fisica e alla forza miracolosa di Gesù. Gesù le dice che suo fratello risorgerà. Marta interpreta le sue parole nella linea della tradizione giudaica, e cioè la risurrezione all’ultimo giorno. Ma questa fede tradizionale è cosa ben diversa da ciò che Gesù afferma: “Io sono la risurrezione e la vita” (v. 25).

L’espressione “Io sono”, che ritorna spesso nel Vangelo di Giovanni, si riferisce alla definizione che Dio dà di se stesso a Mosè sul Sinai: Dio si rivela per comunicare la sua vita a coloro che credono in Lui, che camminano verso di Lui. La fede in Cristo ci procura già da adesso quella vita eterna che si manifesterà nella sua potenza con la nostra risurrezione. La morte non è più una vera morte. La risposta di Marta esprime la fede pura che si appoggia sulla sola Parola di colui che il Padre ha inviato, il Figlio di Dio che s’è fatto carne e salva il mondo: “Sì, o Signore, io credo…” v. 27. Tale è il modello della fede richiesta ad ogni cristiano: non c’è bisogno d’aver toccato il Cristo risorto per credere nella sua Parola.

Il maestro chiama, poi, Maria per avviarla al medesimo atto di fede, alla medesima speranza. Maria corre verso il Signore e riprende la medesima supplica della sorella, e nella sua pena si getta ai piedi del Signore in segno della sua fede sincera verso il Maestro.

Di fronte alla sofferenza di Maria e dei Giudei che si lamentano con alte grida, secondo la moda orientale, Gesù ha un atteggiamento profondamente umano: piange. La gente capisce allora che Gesù amava veramente Lazzaro. Il pianto di Gesù viene preceduto dal suo turbamento e sgomento: la morte di Lazzaro è per Gesù l’annuncio della propria morte e della vittoria momentanea delle tenebre. I giudei mettono in dubbio la potenza di Gesù: perché non è intervenuto durante la malattia? Adesso arriva troppo tardi, e Gesù invece si reca al sepolcro.

Secondo il costume, la tomba era chiusa da una pietra; Gesù ordina di toglierla, Marta osserva che il morto manda già cattivo odore; Gesù le risponde che se lei crederà vedrà la gloria di Dio: il miracolo rivelerà la vera identità di Gesù e la fede è la nostra risposta a questa rivelazione. Gesù non ha bisogno di chiedere al Padre, ma la sua domanda è già azione di grazie, riconoscimento dell’armonia totale tra il Padre e il Figlio. Per questo Gesù comanda non supplica: Lazzaro esce dal sepolcro avendo ancora mani e piedi legati. La morte non ha alcun potere di fronte a Gesù, per questo ordina di slegarlo. Mentre per Lazzaro bisogna togliere la pietra, slacciare i legami, quando verrà la risurrezione di Gesù le donne non potranno far altro che constatare il fatto: la pietra è tolta, le bende sono per terra e il sudario ripiegato in un angolo a parte.

Di fronte alla risurrezione di Lazzaro, molti credettero in Gesù: abbiamo notato l’insistenza sulla fede in tutto il vangelo di Giovanni, la tensione crescente tra Gesù che si rivela nelle sue opere e l’incredulità dei giudei.  La prova definitiva e irrefutabile che i giudei reclamavano viene loro data. Chi ha potere sulla vita se non Dio solo? Gesù fa il miracolo affinché essi credano che il Padre l’ha mandato. Si chiude così il ministero di Gesù in mezzo ai giudei. Questo segno rivela una volta per tutte chi sia Gesù. Ecco perché i giudei lo condannano a morte.

Bibliografia consultata: Morlet, 1971.

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