Religione

La venuta salvifica del Figlio: riconoscere il tempo della salvezza

Il brano (Mc. 13, 24-32) fa parte dell’ultimo discorso di Gesù a Gerusalemme: è un insegnamento di Gesù sulla fine della storia, rivolto alla comunità dei discepoli.

La venuta salvifica del Figlio

Gesù inizia il discorso con un avvertimento che intende esortare i discepoli a non farsi ingannare a proposito della fine del mondo. Segue poi l’offerta di uno schema interpretativo per cogliere il senso profondo delle vicende umane ed ecclesiali. Nonostante la comunità sperimenti la presenza del male, essa, per mezzo di Gesù, sa che è sempre sotto la signoria di Dio creatore e sovrano della storia, che la conduce verso la meta della venuta salvifica del Figlio dell’uomo.

Il culmine della venuta del Figlio dell’uomo (v. 26), introdotto da sconvolgimenti cosmici e dalla raccolta degli eletti (v. 27), comporta un nuovo inizio nella sua fine. Gesù predice ciò che metterà fine al disordine della sofferenza, in un periodo di tempo (“ma in quei giorni” v. 24) non maggiormente precisato. Le parole di Gesù si riferiscono al profondo mutamento del cosmo che non ha importanza in sé, bensì come cornice dell’unico avvenimento decisivo, la venuta del Figlio dell’uomo: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria” (v. 26). Per l’evangelista il Figlio dell’uomo è Gesù, la cui sovranità è sottolineata col dotarla di grande potenza e gloria.

Egli apparirà sulle nubi, che lo caratterizzano come essere celeste appartenente alla stessa sfera di Dio. La gloria è un attributo conferito a Dio, che agisce sulla creazione e nella storia: la grande potenza e gloria che lo circondano sottolineano la sua maestà per la pienezza della luce che si stacca dalla tenebra e dal caos. L’ultimo atto del Figlio dell’uomo è l’invio degli angeli e la raccolta degli eletti. Il Signore che raccoglierà i dispersi da un’estremità del cielo all’altra è ora il Figlio dell’uomo, Gesù, e gli eletti sono i membri della comunità, condotti nel regno del Padre.

Parabola del fico: la corretta attesa del Veniente

La parabola del fico tenta di dare una risposta alla domanda pressante sul momento della fine; il velo del mistero viene un po’ sollevato, ma non tolto del tutto. La parola impiegata nell’immagine e la successiva spiegazione indicano l’urgenza di adeguati comportamenti da parte dell’umanità (v. 34). L’albero del fico mette le foglie solo quando la temperatura è sufficientemente elevata, perciò prelude con sicurezza all’approssimarsi dell’estate. Scopo della parabola è stabilire la relazione sicura riguardo al giorno e all’ora, anche se non esattamente calcolabili in precedenza, tra l’annuncio della fine e il suo verificarsi.

Gesù invita a “imparare”: incominciate a imparare, prendete esempio dal fico. Se quando il ramo diventa tenero e produce le foglie, si conosce che l’estate è vicina, così quando si vedono accadere queste cose, conoscete che è vicino, presso la porta di casa, il “regno di Dio”. Ciò che è diventato visibile nelle gesta miracolose di Gesù, ora si avvicina in forma compiuta ai cristiani, che guardano verso la seconda venuta del Figlio dell’uomo.

Dal senso escatologico (finale) a quello etico

Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (v. 31): tutta la creazione, compresa l’umanità, passerà, avrà un termine, le parole di Gesù invece durano. Se la comunità sente già la mancanza di Gesù e del suo futuro ritorno (parusia), ha però le sue parole, cioè tutta la sua predicazione e azione che non passano per tutta l’eternità. Sulla conoscenza del giorno e dell’ora (v. 32), solo Dio risponde del tempo finale e della sua conoscenza: nessuno lo sa, né gli angeli, né il Figlio dell’uomo.

La vicinanza certa del Regno di Dio non è una misura cronologica ma un motivo etico che esorta i discepoli alla vigilanza: Dio viene sempre da noi e in Gesù Cristo il compimento è sempre vicino, ci coglie nell’incontro con la parola di Dio, ci chiama in ogni decisione di fede e di morale, e viene a noi anche nel morire personale. Vista così, la fine di tutte le cose è sempre davanti a noi e l’arrivo del Figlio dell’uomo è un movimento duplice: di noi che andiamo a lui e di lui che viene a noi. Un cammino reciproco che anticipa quello finale, universale e rinnovatore del Figlio dell’uomo. Ciò che non passerà sono le sue parole che hanno un valore eterno, perché generatrici di vita, di comunione e d’amore.

Dopo la triste esperienza del coronavirus noi possiamo comprendere quanto è adombrato nelle parole di Gesù, le immagini dell’angoscia e del disorientamento, quando si teme per la propria incolumità, quando si viene afferrati dalla paura del contagio, dell’isolamento, della sofferenza. In questi frangenti drammatici rischiamo veramente di lasciarci abbattere, di sprofondare in un cupo pessimismo, di farci ingoiare dalla depressione.

Ed è proprio per questo che Gesù ci invita a ritrovare la speranza, mettendo la nostra vita nelle sue mani. Qualunque cosa accada il Signore non ci abbandonerà: questa nostra storia intessuta di tribolazioni e di smarrimenti, di lacrime, di sudore e di sangue, Egli la conduce verso il compimento. Non verso un gorgo oscuro, una catastrofe prevista, ma verso quel mondo nuovo che Gesù ha annunciato e inaugurato con la sua morte e risurrezione. C’è un Venerdì santo in cui tutto sembra finito. Ma c’è un mattino di Pasqua in cui appare chiaramente che la vita è più forte della morte. E c’è una primavera segnalata dai germogli che spuntano nei punti più diversi della terra.

Il Capocordata

Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.

Redazione

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