Religione

La vite e i tralci: rimanere per portare frutto

A metà del lungo discorso di addio tenuto da Gesù nell’ultima cena egli fa ricorso all’immagine della vite per parlare del suo rapporto indissolubile con i discepoli (Gv. 15, 1-8). Tramite l’immagine agricola, Gesù si identifica con la vite e individua Dio nell’agricoltore con la mansione della potatura. Forse questa immagine rimanda a situazioni di difficoltà, di fragilità o di prova che nella vita del discepolo possono accadere. Queste situazioni di crisi e di fallimento, che possono essere motivo di allontanamento dalla fede, quando si immagina un Dio che permette sventure e sofferenze, in realtà, se sono affrontate nella consapevolezza della fede, consolidano e rafforzano il rapporto con Dio. Le situazioni di fragilità infatti fanno riconoscere che non siamo degli assoluti, portando alla comprensione della nostra dipendenza vitale da Dio.

Rimanere per portare frutto

Esplicitando l’immagine della vite e dei tralci Gesù invita a rimanere in lui. Il verbo “rimanere” compare abbondantemente nel vangelo di Giovanni, indicando una nuova dimensione della relazione tra Gesù e i discepoli. Se nella tradizione sinottica il rapporto con Gesù è istruito dal verbo “seguire”, quindi si basa su un dinamismo, su un movimento, nel quarto vangelo il seguire è condizione necessaria, ma non sufficiente, perché è richiesto anche l’atteggiamento del “rimanere” in Gesù, esplicitato nella sua dimensione indissolubile dall’immagine della vite e dei tralci.

Il rapporto stretto e vitale tra Gesù e i discepoli ha un’ulteriore dimensione storico-esistenziale: soltanto in questa indissolubile unità sarà possibile produrre frutto. L’immagine del frutto è consueta nella tradizione biblica. In Giovanni rimanda a una fede attiva e perseverante ispirata alla dinamica dell’amore. Non si tratta pertanto di compiere buone opere, ma di vivere la propria esistenza all’insegna della dedizione agli altri. La relazione con Gesù è così vitale che solo essa porta il discepolo non a fare la carità, non a esercitare un servizio, ma a comunicare, in tutto ciò che egli è, la potenzialità di vita del Signore risorto.

Al contrario, il fallimento del rapporto con Gesù porta al fallimento del discepolo stesso, che ritrova la sua consistenza di vita in questo rapporto vitale con lui. L’immagine della secchezza dei tralci staccati dalla vite, così come quella del fuoco che li brucia, non sono tanto di marca giudiziale definitiva, come spesso si sente interpretare nella storia della tradizione ecclesiale, quanto simbolo del fallimento esistenziale.

Il senso della preghiera

Ricorrendo a una frase ipotetica (“se rimanete in me…”), Gesù parla dell’efficacia della preghiera, quando si vive una relazione esistenziale con lui. Queste parole di Gesù hanno ricevuto un’interpretazione troppo superficiale, inducendo l’orante a chiedere quanto vorrebbe, con la sicurezza che sarà esaudito. Si tratta di una particolare attenzione da parte dell’evangelista Giovanni nei confronti della pedagogia della fede, per la quale, in assenza di certe premesse e dati presupposti, non si giunge a nessuna maturazione, a nessun esito, nemmeno nel cammino di fede.

La preghiera di richiesta avrà una sua efficacia, ma ci devono essere alcune premesse che il quarto vangelo indica esplicitamente: se il discepolo rimane in Gesù e le sue parole rimangono nel discepolo, le richieste si realizzeranno.

La duplice condizione sopra annotata è assolutamente determinante per la comprensione del senso della preghiera. Chi vive un rapporto esistenziale con Gesù e interiorizza la sua Parola, formula una preghiera che non avrà semplicemente per contenuto desideri personali, ma la richiesta sarà in relazione a ciò che la parola di Gesù suggerisce. Allora questa preghiera verrà ascoltata e realizzata da Dio. Si chiedono spesso cose insegnate da una certa religiosità vaga e generica, ma non si ottengono: come mai? Vi è una sana distinzione tra ciò che una visione generalista assicura e ciò che invece corrisponde all’esigente e radicale parola del Vangelo.

Dio riconosciuto come Padre

Questo stile del discepolo porta alla glorificazione di Dio, riconosciuto come Padre. Il tema è antichissimo e attraverso la grande tradizione biblica secondo la quale, sebbene Dio non si possa vedere, se ne può sperimentare la gloria nella creazione, nell’opera storica della sua rivelazione e della liberazione. Questa glorificazione si è realizzata con Gesù soprattutto nella sua vicenda di morte e risurrezione, ma continua ad attuarsi nella storia con i discepoli, che vivono un profondo rapporto con lui e la comunicazione di una vita dinamica e piena di senso, subito percepita da chi entra in contatto con la comunità.

La relazione vitale con il Signore Gesù, la comunione, il rimanere con lui, sono generate continuamente dall’ascolto della Parola che purifica, rinnova, trasforma e porta frutto. L’ascolto credente e orante della Scrittura aiuta a generare in noi i desideri e i pensieri di Cristo, i suoi sentimenti e la sua sapienza. Inoltre, si rimane con lui attraverso l’eucaristia, la Parola fatta carne nel sacramento.

Se avessimo capacità penetrativa, nel pane spezzato vedremmo il fianco aperto del Figlio con un cuore palpitante, che batte fremente di misericordia, innamorato e intenzionato a donarsi con fedeltà. Egli è l’uomo “totalmente aperto”, totalmente donato per stare e rimanere. Nella condivisione del pane eucaristico, attraverso l’azione dello Spirito Santo che viene elargito con generosità, si stabilisce una comunione profonda, un legame di alleanza, una relazione stretta che ci trasforma e ci potenzia nel dono, che supera di gran lunga la precarietà e l’emozionalità. Se siamo uniti al Signore sentiamo fluire dentro di noi una pienezza sconosciuta che dilata ogni spazio del cuore, dell’intelligenza e della volontà.                                                                          

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Grasso, 2021; Marson, 2021; Laurita, 2021.

Redazione

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