Le pecore del Buon Pastore

Come essere discepolo del Maestro

La quarta Domenica di Pasqua viene chiamata “la Domenica del Buon Pastore” e le viene attribuito il carattere vocazionale: in questa domenica, infatti, la Chiesa invita i fedeli a pregare il Signore per le vocazioni sacerdotali e religiose, perché l’esempio di Gesù “Buon Pastore” sia per i sacerdoti il loro modello di vita. Le parole di Gesù sul “Buon pastore” nascono come risposta ai giudei, i quali vogliono sapere se Egli è il Messia: Gesù risponde a questa domanda con il brano del “Buon Pastore”, che l’evangelista Giovanni ha condensato nel capitolo decimo del suo Vangelo. Il racconto di Gv. 10, 22-39 ha molte analogie (somiglianze) con la comparizione di Gesù davanti al sinedrio di cui ci parlano gli altri evangelisti. Anche allora i giudei chiedevano a Gesù di dichiarare apertamente se era il Cristo: Gesù risponde sempre in termini velati (“Io e il Padre siamo una cosa sola” v. 30; “Il Figlio dell’Uomo sarà seduto alla destra della Potenza di Dio” Lc. 22, 69).

Possiamo dunque situare questo testo di Giovanni (10, 27-30) verso la fine della vita pubblica di Gesù, quando i giudei volevano ad ogni costo porre fine alla grande polemica con Gesù.
L’atteggiamento delle pecore davanti al Pastore (vv. 27-28): “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Notiamo in queste parole tre affermazioni sulle pecore, a cui ne corrispondono altrettante sul pastore: le pecore ascoltano la voce di Gesù – Egli le conosce; lo seguono – Egli dona loro la vita eterna; non periranno mai – nessuno le strapperà dalle sue mani.
Innanzitutto, le mie pecore “ascoltano la mia voce”. Ascoltare non è semplicemente udire, ma è l’atteggiamento fondamentale del credente di fronte a Cristo Gesù. Ascoltare significa credere (obbedire), credere alla Parola (Logos). E poiché Gesù è anche Vita, ascoltarlo significa ricevere la vita. Dunque, chi ascolta (obbedisce) la voce del Cristo, dimostra di essere una pecora del “Buon Pastore”. Se le pecore ascoltano e comprendono, il Cristo da parte sua afferma: “Io le conosco”. Questi due atteggiamenti si corrispondono.

Come le pecore, quando lo sentono (gli obbediscono), percepiscono molto di più di un semplice suono della voce, così Gesù, quando le conosce (le ama), non esercita soltanto un’attività intellettuale. “Conoscere” è una relazione reciproca ed esprime l’unità profonda di due persone che si amano. Ascoltare (obbedire) e conoscere (amare) si corrispondono e si riferiscono alla persona nella sua completezza: mente, cuore e anima.
Oltre ad ascoltare, le mie pecore “mi seguono”: chi ascolta obbedendo, non rimane senza frutto, perché ascoltare implica l’azione. Ascoltando, il discepolo ha già dimostrato la sua fiducia nella Parola e, quindi, egli è pronto a tutto, perfino a dire come lo scriba del Vangelo: “Ti seguirò dovunque andrai” (Mt. 8, 19). Alla sequela di Gesù ne consegue per il discepolo la salvezza, in quanto il “Buon Pastore” dà la vita per le sue pecore, affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Ascoltare con una fede senza esitazioni la parola del Cristo e seguirlo, significa possedere fin d’ora il dono promesso per la fine dei tempi: la vita eterna. L’uomo non può aver fiducia in nessun altro, perché solo Gesù “ha parole di vita eterna”: se egli crede “è passato dalla morte alla vita”.

Proprio in forza di questo ascolto fiducioso che spinge le pecore a seguire il “Buon Pastore”, esse “non periranno mai”: Gesù garantisce loro di nuovo la vita eterna. Mentre il ladro viene solo per distruggere, il Figlio ha ricevuto dal Padre la missione di non lasciare andare perduto nulla di ciò che gli ha affidato. Nel discorso di addio, durante l’ultima cena, Gesù annuncia al Padre di avere assolto questa missione: “Nessuno è andato perduto…”. A quelli che lo arrestano, Gesù chiede che i suoi discepoli vengano lasciati andare. A completamento di questa affermazione, Gesù dice che nessuno strapperà dalla sua mano le pecore del suo gregge. Mentre il mercenario abbandona le pecore al primo accenno di pericolo e così il lupo può “strapparle” e “rapirle”, in mano a Gesù, il “Buon Pastore”, il gregge gode di assoluta sicurezza, custodendo tutto ciò che il Padre gli ha dato.

La grandezza del Padre: “Il Padre, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre” (v. 29). La sicurezza di cui godono le pecore vicino al “Buon Pastore” è incrollabile perché garantita dal Padre stesso. Secondo l’evangelista, Gesù afferma che il Padre è più grande di tutto: il gregge che gli ha affidato è il dono incomparabile e più grande di ogni altro. Ora nulla può essere strappato dalla mano del Padre; egli non cessa di vigilare sulle pecore affidate al Figlio, perché il Figlio dipende totalmente dal Padre. I cristiani devono ritenersi sicuri nella mano del Padre, che li ha donati al Figlio con piena autorità.

Giungiamo così ad una affermazione di Gesù che provocherà scandalo e quasi una catastrofe: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (v. 30). A queste parole i giudei si preparano a lapidare Gesù (v. 31); nel passo corrispondente degli altri tre evangelisti, tutto il sinedrio è d’accordo che una simile bestemmia meriti la morte. Come definire la natura dell’unità del Padre col Figlio? Nel nostro contesto, essa significa che nessuno può strappare le pecore dalla mano del Cristo, perché nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Esse godono di uguale sicurezza sia con l’uno che con l’altro, perché il Padre e il Figlio hanno il medesimo potere. L’unità con Dio, di cui parla Gesù, non è soltanto un’unità morale, ma di potenza e di azione, cioè di natura, sostanziale. I giudei raccolgono pietre per lapidarlo, poiché nelle sue parole vi leggono la bestemmia: egli si fa Dio.

A chi è arrivato a leggermi fin qui, io dico: se sei una pecorella del Signore, ascolta ciò che Gesù ti dice nel Vangelo e mettilo in pratica, seguilo nella sua strada, così avrai la vita, la felicità, quella vera, e darai senso all’intera tua esistenza; se, invece, sei un pastore (genitore, insegnante, sacerdote), ama coloro che sono stati affidati alle tue cure, vivi per loro, mettendoti a loro completa disposizione, così che si sentiranno sicuri nell’affrontare i pericoli della vita che incombono su di essi e avranno assicurata la vita eterna, quella che mai tramonta e mai finisce, perché è la vita divina in loro e in noi.

Bibliografia consultata: Stemberger, 1970.

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