Categorie: Cronaca

Licenziati per un post su Facebook: i rapporti di lavoro nell’era social

La legislazione sul lavoro nella maggioranza degli Stati parte dal presupposto che le relazioni tra datore di lavoro e dipendente siano basate su un rapporto di fiducia volontario. Questo significa che un dipendente è libero di abbandonare in qualsiasi momento un lavoro.

E lo stesso il datore di lavoro che può interrompere il rapporto per qualsiasi motivo, se non viola le leggi previste a tutela del lavoratore: il licenziamento, ad esempio, non può avvenire se basato su discriminazioni di razza, colore della pelle, sesso, religione, età o disabilità.

Da qualche anno a questa parte i social media si sono aggiunti nelle normative riguardanti le problematiche inerenti al rapporto di lavoro. Un lavoratore può essere licenziato se rivela informazioni confidenziali sulla sua azienda sui social media, così come segreti commerciali, o informazioni sui bilanci, sui clienti e in generale se mette in cattiva luce la società.

Anche i post personali pubblicati al di fuori dell'orario di lavoro che danno un'immagine negativa del lavoratore, mentre beve alcolici ad esempio, o con foto dal contenuto inappropriato che danneggiano indirettamente l'immagine della società, possono condurre al licenziamento.

Ci sono società  che hanno adottato un codice di condotta per i social media che viene fatto firmare a tutti i dipendenti. Alcune aziende arrivano a proibire l'uso degli smartphone personali o dei social media durante l'orario di lavoro perché tendono a rendere meno produttivi i dipendenti.

In questi casi il semplice fatto di entrare su un social media durante l'orario di lavoro, nel momento in cui si viene pagati per compiere una determinata attività, viola la policy aziendale e quindi rende il dipendente soggetto a un possibile procedimento disciplinare che può portare fino al licenziamento.

Facebook, Instagram, Twitter, Linkedin, ma anche YouTube o un blog. Ci sono stati casi di licenziamento per post violenti, estremamente polemici, discriminatori su razza, sesso o religione, con contenuto razzista o esplicitamente sessuale. Un ingegnere di Google nell'estate del 2017 ha perso il lavoro dopo che aveva postato un memo sulla bacheca digitale aziendale nel quale sosteneva che le donne hanno una tendenza a sviluppare nevrosi, un fatto, secondo lui, che le rende meno adatte ad avee ruoli da ingegnere come gli uomini.

Come è successo a un'infermiera di Sacramento che su Facebook, commentando l'uccisione di un afroamericano disarmato a un controllo di polizia nella sua città aveva scritto: "Se l'è cercata". Immediatamente licenziata con una lettera di scuse pubblica dell'ospedale che ricordava il rispetto dovuto alla diversity da parte di tutti i suoi operatori.

Tuttavia stare sui social network è inevitabile, anche la carrriera ne risente. Secondo un sondaggio di CareerBuilder, il 70% dei datori di lavoro usano i social media per fare la prima selezione quando devono assumere e cercare determinati profili. Una percentuale che era di appena l'11% nel 2006.

A significare ormai l'importanza dei social nel reclutamento. L'affidabilità di un lavoratore, dicono i selezionatori di personale, parte dalla mente ma arriva fino alle dita che si muovono su una tastiera.

Ogni post è un riflesso del proprio carattere. E di solito la prima impressione che un datore di lavoro ha di un candidato, prima ancora del colloquio, arriva dalla sua storia sui social, dalla sua reputazione e dalla sua popolarità. Un consiglio su tutti: non smettete di essere adulti sul web, ogni commento o informazione personale che condividete su Internet vive per sempre.

(Da "Il Sole 24 ore", Riccardo Barlaam)

Redazione

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