Mario Tozzi “E’ possibile eliminare chimicamente l’arsenico”

Chi vuole bere acqua in bottiglia lo può fare per qualsiasi ragione fuorché quella della sicurezza

mario tozzi presidente parco regionale dell'appia antica

Mario Tozzi

La buona notizia è che, in linea teorica, ogni uomo ha a disposizione, sul pianeta Terra, oltre diecimila litri di acqua al giorno: una quantità impressionante, se si pensa che nella Firenze dell’estate del 1944 c’era disponibile un solo litro per abitante. La notizia cattiva è che, però, ogni italiano (esempio paradigmatico di cittadino del mondo occidentale ricco) ne «beve» seimila. Ma proprio ne beve, tenendo presente che soltanto il 7% dell’impronta idrica viene usato per la manifattura industriale, mentre solo il 4% per l’igiene domestico. Tutto il resto è acqua «nascosta» nei cibi che consumiamo, inconsapevoli, in quantità spaventose anche rispetto alla teorica ricchezza d’acqua del pianeta.  

L’Italia è il terzo importatore mondiale di acqua virtuale contenuta in cibi che provengono dall’estero (62 miliardi di metri cubi all’anno), dunque contribuisce seriamente all’assorbimento della risorsa idrica del mondo. Settanta grammi di pomodori hanno bisogno di 13 litri d’acqua, ma un singolo hamburger arriva fino a 2400 litri. Nonostante le piogge, che in Italia sono divenute più abbondanti, nonostante per confezionare una t-shirt occorrano 4100 litri d’acqua e per fabbricare un wafer di silicio da sei pollici ce ne vogliano 20.000, noi assumiamo quantità incredibili d’acqua attraverso il cibo importato.  

L’altra cattiva notizia è che l’acqua degli italiani non è sempre di ottima qualità. Ora, va subito detto che questa non può essere una scusa per continuare a essere fra i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo (191 litri per famiglia all’anno, più di noi solo il Messico). Non c’è alcuna ragione di sicurezza per preferire l’acqua in bottiglia rispetto a quella del rubinetto, che viene controllata quotidianamente con scrupolo e che deve sottostare a normative draconiane. Chi vuole bere acqua in bottiglia lo può fare per qualsiasi ragione fuorché quella della sicurezza, che è certamente garantita nei nostri acquedotti (e l’acqua imbottigliata può anche essa provenire da falde vulcaniche).

Ma l’arsenico, no, quello non ce lo aspettavamo. Eppure, in realtà, le cose sono cambiate solo sulla carta, quando finalmente l’Italia si è adeguata a una normativa europea del 1998 (!) che è stata rimandata, come altre, per quasi vent’anni e che prevede dieci microgrammi di arsenico, al massimo, per litro d’acqua potabile (contro i cinquanta fino a qui tollerati). In diversi posti dell’Italia centrale, e nella stessa Roma, invece, si va ben oltre quelle concentrazioni (o meglio si andava già oltre): circa un milione di persone sono complessivamente coinvolte nel nostro Paese.  

L’arsenico non dipende direttamente dall’inquinamento di attività umane velenose più o meno criminali, o dallo stato delle condutture, quanto da condizioni chimiche particolari nell’acquifero o dalla presenza di minerali sulfurei che contengono il pericoloso elemento che viene portato in circolo naturalmente. Lo stesso fenomeno è ben noto in Giappone, Nuova Zelanda, Cina o Grecia e dove sono presenti rocce vulcaniche. E, in genere, si ritiene che il fenomeno sia praticamente tollerabile per gli adulti almeno fino a tre anni di esposizione, mentre comporti rischi più alti fino ai 18 anni di età (i pochi studi epidemiologici non mettono in luce rischio di malattie connesse per livelli inferiori ai 25 microgrammi).

E’ peraltro possibile eliminare chimicamente l’arsenico, potenzialmente in grado di provocare cancro e danni cardiovascolari, attraverso alcuni «filtri» che comportano un costo elevato, diciamo attorno a 250.000 euro per cinquemila abitanti (come si è fatto a Vitorchiano, in provincia di Viterbo). Siamo sicuri che eventuali gestori privati dell’acqua possano permetterselo? E, infine, se l’arsenico è da sempre naturalmente contenuto nelle falde acquifere dei terreni vulcanici, come facevano gli antichi abitanti dell’Etruria o del Lazio a non avvelenarsi? 

 

* Articolo pubblicato su La Stampa, per gentile concessione dell'autore

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