Politica

Permessi-premio a gogò, ergastolo ostativo in forse. Addio, certezza della pena

C’è il caso di giornata, con una richiesta di arresti domiciliari che per fortuna è stata respinta, e ha un nome che mette i brividi: quello di Giovanni Brusca. Responsabile della strage di Capaci. Responsabile del sequestro e dell’omicidio del tredicenne Giuseppe Di Matteo, il cui cadavere fu poi sciolto nell’acido. Responsabile, per sua stessa ammissione, di molto più di cento omicidi, anche se «di sicuro meno di duecento». Sulla cifra esatta, sai com’è, non ci si raccapezza nemmeno lui: «Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso».

Arrestato nel 1996, questo assassino abituale che annichilisce i “record” dei più sanguinari serial killer si è puntualmente riciclato come “collaboratore di giustizia”. E pertanto, come da prassi nell’orrendo interscambio tra l’utilità delle delazioni e l’umiliazione collettiva della rinuncia a una pena inflessibile, è sfuggito all’ergastolo cosiddetto ostativo. Quella condanna, cioè, che esclude in ogni caso la possibilità di tornare liberi. E di cui proprio oggi – ed eccoci al problema di carattere generale – i giudici UE hanno ribadito l’incompatibilità con la Convenzione sui diritti umani.

“La Grande Camera della corte europea – riepiloga a caldo il Corriere della Sera, nella versione online – ha ritenuto inammissibile il ricorso dell’Italia contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Con la “sentenza Viola” del 13 giugno scorso (dal nome del ricorso presentato dall’ergastolano Marcello Viola) una sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo aveva giudicato che l’ergastolo ostativo – ossia l’esclusione di qualunque beneficio per i detenuti condannati al carcere a vita per alcuni reati: mafia, terrorismo, e altri considerati particolarmente gravi – è contrario all’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti inumani e degradanti”.

Le due questioni vanno affiancate. Benché diverse, infatti, sono comunque incardinate su un principio teorico che andrebbe maneggiato con estrema cautela. E che è citato espressamente anche nella Costituzione, al terzo comma dell’articolo 27: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”.

L’obiettivo ha senso, ma a patto che rimanga un auspicio da verificare caso per caso. E d’altronde il verbo scelto dagli estensori della Suprema Carta non dovrebbe dare adito a equivoci: “tendere” significa sforzarsi di ottenere, e non generare con certezza, o addirittura in modo automatico, l’effetto sperato.

Un bravo contadino “tende” ad avere il miglior raccolto possibile, e a salvare le sue piante infestate dai parassiti: ma se l’infezione è troppo grave per poter essere debellata, allora quelle piante le abbatte. E lo stesso fa un bravo allevatore con i suoi capi di bestiame.

Trasferito in ambito giudiziario, e non essendoci più la pena di morte (nemmeno per quei crimini di straordinaria e disumana ferocia che pure la consiglierebbero, se non altro come atto di purificazione collettiva), “abbatte” va assunto in chiave metaforica. E si può tradurre in “separa”. O “isola”. L’individuo irreversibilmente infetto viene escluso dal consorzio sociale e collocato in quell’altrove che è il carcere. Ciò che ha fatto è troppo grave perché vi sia perdono. Ciò che ha fatto è troppo abominevole perché vi sia redenzione.

Non potendo essere fisica, la sua morte deve essere almeno simbolica.

Assassini sì, tuttavia…

Il caso di Giovanni Brusca è di quelli macroscopici, ma ce ne sono innumerevoli altri che pur essendo meno gravi esigerebbero un approccio molto più rigoroso di quello adottato da tanti/troppi magistrati di sorveglianza. I “permessi premio”, ad esempio, sono concessi con esagerata facilità.

Vedi il caso, di cui si è ampiamente parlato nelle settimane scorse, di uno dei tre assassini di Francesco Della Corte, il vigilante che fu aggredito a sprangate il 3 marzo 2018 (no, non è un errore: proprio il 2018, meno di due anni fa) al solo scopo di rubargli la pistola, e che morì dodici giorni dopo per le ferite riportate. Il giovanotto-omicida era in procinto di compiere i 18 anni e si è deciso che fosse un motivo sufficiente per consentirgli di uscire dal carcere per festeggiarli. E siccome il personaggio è quello che è – la vedova dell’ucciso ha sottolineato che né lui né i suoi degni compari «hanno mai mostrato un minimo pentimento per l’atroce delitto commesso ai danni di un padre di famiglia» – le immagini dell’allegra festicciola sono finite sui social.

Una svista occasionale, il “bonus compleanno”?

Ma figuriamoci.

Come ha puntualizzato Repubblica, siamo già a quota cinque. In particolare, “uno l’ha utilizzato per sostenere un provino per una società calcistica del Beneventano. In un altro ha pranzato con la famiglia in un ristorante dello stesso comune dove si trova il carcere minorile in cui sta scontando la pena e dove ha iniziato un percorso di riabilitazione che, secondo la famiglia del vigilante, non avrebbe ancora prodotto frutti”.

Appunto: dal succitato “tendere alla rieducazione del condannato” si passa con sconcertante rapidità al “pretendere” che la rieducazione si stia già dispiegando solo perché il delinquente di turno è stato condannato e messo in galera.

L’affermazione di principio si trasforma in un dogma. E la retorica dei “diritti umani” si conferma ancora una volta per quello che è: una via di mezzo tra un’astrazione irragionevole che narcotizza le coscienze e un’accortezza ipocrita che disarma i popoli.

Federico Zamboni

Giornalista professionista e molto altro, tra stampa, radio e incontri pubblici. Terreno di caccia preferito: la società occidentale che fa finta di essere libera, democratica, benintenzionata. Nel 2019 ha pubblicato “Loro sono furbi… ma noi possiamo essere intelligenti” (Guida alle tecniche di manipolazione).

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