Religione, il suo volto cambiò di aspetto

di Il capocordata

Ai suoi discepoli, che lo hanno riconosciuto come Messia (la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo), Gesù rivela la via di un messianismo sofferente che attraverserà il rifiuto e la morte, un messianismo diverso dalle attese d’Israele e dei discepoli. Eppure l’ultima parola del suo annuncio sulla passione è la promessa di una risurrezione: “…e risorgere il terzo giorno” (Lc. 9, 22). Per questo, otto giorni dopo, Gesù concede a Pietro, Giacomo e Giovanni una pausa, perché possano contemplare la sua gloria e intravvedere la meta ultima del suo itinerario (Lc. 9, 28-36). L’evangelista Luca ambienta la vicenda “otto giorni dopo” (v. 28), nella medesima cornice temporale in cui colloca le apparizioni del Risorto: “il primo giorno dopo il sabato” (24, 1).

Questo giorno “nuovo” non esiste nel computo del tempo cronologico, esiste nel calendario della comunità a cui Luca si sta rivolgendo, che attinge le sue coordinate dal Regno di Dio e non dal vecchio mondo. E’ un tempo di grazia che va oltre i sette giorni della settimana chiusi nel ciclo ripetitivo del tempo assegnato alla vita corruttibile. Ciò che si dischiude agli occhi dei discepoli sul monte è nientemeno che la vittoria pasquale, il tempo dell’eternità: prendendoli con sé e facendoli salire sul monte, Gesù li fa entrare in una dimensione diversa, in una comunione che Pietro vorrebbe fosse permanente.

“Mentre pregava” (v. 29). Questo giorno nuovo è la possibilità di vedere le cose in modo nuovo e di percepire un “altro” (trasfigurato) volto di Gesù. E’ nella preghiera che si percepisce questo volto che Gesù assume cambiando d’aspetto. Coinvolgendo i discepoli nella sua preghiera, mostra loro la sua gloria. Luca ricorda nel suo vangelo che Gesù per ben otto volte è in preghiera; inoltre, è l’unico evangelista a riportare le tre parabole sulla preghiera e a chiudere il discorso sulla fine della storia (escatologico) con un invito a pregare.

“Due uomini parlavano con lui” (v. 30). La preghiera dischiude l’accesso a questo mondo altro in cui campeggiano due uomini, Mosè ed Elia, figure di luce a cui Gesù è assimilato e con i quali entra in dialogo. Essi hanno vissuto un itinerario “esodale” simile al suo, per questo si intrattengono con Gesù per parlare del suo esodo che sta per compiersi a Gerusalemme: la sua Pasqua (esodo, passaggio). Questi due uomini ricompaiono in abito sfolgorante il mattino di Pasqua che annunciano alle donne la risurrezione di Gesù e nel racconto dell’Ascensione. Essi, quali figure che hanno percorso un itinerario di rifiuto e glorificazione simile a quello del Cristo, sono gli esponenti più qualificati per legittimare la via umile del suo messianismo, ricordando alle donne che egli doveva essere consegnato in mano ai peccatori, crocifisso e risorgere il terzo giorno e anticipando ai discepoli il giorno del compimento finale, quando egli verrà nella sua gloria.

“Quando si svegliarono”(v. 32). Solo dopo essersi svegliati dal sonno, i discepoli vedono la gloria di Gesù e i due uomini che stanno con lui. Il sonno dei discepoli evoca certamente la loro fragilità dinanzi all’irrompere della gloria di Dio. Ai discepoli è dato di contemplare la gloria di Cristo risorto e di partecipare anticipatamente a quella pasqua che si dischiuderà per ciascuno di essi al risveglio dal sonno della morte.

“Facciamo tre capanne” (v. 33). Dinanzi a tanta bellezza Pietro vorrebbe attendarsi, quasi a bloccare il corso del tempo, volendo innalzare tre capanne una per Gesù, una per Mosè e l’altra per Elia. Vedendo la gloria di Gesù e pieno di entusiasmo, Pietro ritiene che sia giunto il tempo della glorificazione del Messia e della inaugurazione del suo Regno. La gloria di Dio nella trasfigurazione di Gesù rivela che è una realtà “in fieri” (in divenire) a cui il tempo si può aprire e di cui gli uomini possono percepire i riflessi già al presente, accogliendo la parola del Figlio, cioè ascoltandolo, come raccomandato dalla voce divina.

Per la tradizione biblica la gloria di Dio è il suo irrompere nella storia, facendosi percettibile e al tempo stesso celandosi nei segni della sua presenza. Dio si fa vedere e al tempo stesso sfugge alla “presa” dell’uomo. La gloria di Dio è la “pressione” (gloria in ebraico significa “pesantezza”) che egli esercita sulla storia, un peso tanto gravoso per il mondo da precludere all’uomo una visione immediata, faccia a faccia. In Gesù il gravoso peso di Dio si fa tanto “leggero” da essere visibile, senza perdere la propria trascendenza.

Ora gli occhi dei discepoli vedono un corpo rivestito di una veste candida e sfolgorante, un corpo pieno della vita di Dio. Vedendo la gloria di Gesù, i discepoli scoprono ciò che possono diventare mettendosi alla sua sequela: seguendo Cristo, si diventa come lui, partecipi della sua luce. La voce dalla nube afferma che questa bellezza va ascoltata, perché trasformi l’esistenza: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo” (v. 35) . La visione resta esterna all’uomo, ma la parola entra in lui, chiedendo obbedienza. Finché non si ascolta la parola bella del Figlio, non ci si appropria della sua bellezza, cioè della gloria di Dio.

La voce celeste invita i discepoli ad ascoltare Gesù quando dice di dover soffrire: essa conferma la via di un messianismo sofferente che rifugge dalle visioni trionfalistiche che Pietro e i discepoli si portano nel cuore. Solo l’accoglienza obbediente della Pasqua dischiude al Figlio e a tutti coloro che si lasciano associare al suo cammino la possibilità di vedere la gloria del Figlio di Dio.

Bibliografia consultata: Rossi, 2019.

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