Religione, La risurrezione del figlio della vedova di Nain

di Il capocordata

Lo storico è obbligato a riconoscere che la narrazione (Lc. 7, 11-17) è perfettamente sobria e naturale. Gesù risuscita il ragazzo con una semplice parola, e la trascendenza del suo potere ne risulta così accentuata: l’occasione immediata del miracolo è un impulso di pietà spontanea del Signore. D’altra parte, la localizzazione del miracolo a Nain, un villaggio ben reale che tuttora esiste col nome di Nein, radica solidamente il racconto nella tradizione palestinese.

La pietà di Gesù

Come nelle altre “storie di miracoli”, anche nel nostro brano affiora l’accenno alla realtà del male e all’intervento sovranamente efficace di Gesù, che verrà seguito dalle reazioni dei testimoni. La realtà del male è tratteggiata con una sola parola: si tratta di “un morto, il figlio unico di una madre vedova” (v. 12), disteso su una barella funebre. Viene portato alla tomba scavata nella terra e il corteo ha già lasciato alle sue spalle la porta della città. Il carattere istantaneo e reale della risurrezione è messo vigorosamente in risalto: un ordine molto breve, ma perentorio, ed ecco il defunto mettersi seduto, così vivo che incomincia a parlare (vv. 14-15). I portatori si fermano immediatamente quando Gesù tocca la bara: qui, la fede richiesta come condizione per il miracolo, appare molto sfumata. Nulla infatti deve distogliere l’attenzione del lettore dalla pietà del taumaturgo, sottolineata con abilità dalla struttura del racconto che dà a tutta la scena una fortissima carica emotiva: si tratta di una donna, di una vedova in lacrime, che accompagna al sepolcro il suo unico figlio, ancora giovane; Gesù stesso è vinto dall’emozione (v. 13), un sentimento molto forte, che afferra nella parte più profonda dell’essere. Il dolore della povera madre era in grado di suscitare in Gesù un’emozione di questo genere. Gesù, come messia, è venuto infatti a rivelare all’uomo, salvandolo dalla sua miseria, l’amore divino del Padre misericordioso. La compassione di Gesù è rivolta ai poveri, ai malati, ai peccatori. L’evangelista manifesta, inoltre, un particolare interesse alla compassione che Gesù rivolge anche verso le donne: ha chiaramente messo in evidenza che anche la donna è destinata al regno di Dio; a lei, come a tutti i deboli di questo mondo, è destinato il gioioso messaggio di salvezza portato da Cristo ai poveri.

La risurrezione di un morto, segno della risurrezione finale

La risurrezione del ragazzo rappresenta un segno fondamentale della venuta dei tempi messianici e dell’identità di Gesù: Egli è la risurrezione e tutti coloro che credono in lui risorgeranno nell’ultimo giorno. Ma ciò poteva essere compreso solo alla luce della Pasqua del Signore (v. 13). Soltanto il credente, e alla luce dell’evento pasquale, può comprendere che questo miracolo del Cristo terreno era un riflesso anticipato della vita nuova, che ci verrà donata ad immagine del Cristo risorto e grazie all’azione efficace di lui, e sarà totalmente diversa dalla ripresa temporanea di una vita corruttibile.

Le conseguenze dell’avvenimento (vv. 16-17)

“Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio…” (v. 16). Gesù non si è limitato ad asciugare le lacrime di una madre sconsolata; tutti i testimoni hanno compreso che era sorto un grande profeta e che la sua pietà era lo strumento della pietà divina; tutto il suo popolo ha ricevuto la “visita” di Dio. Due grandi folle che si muovono in senso inverso s’incontrano alle porte della città e assistono insieme all’avvenimento: è naturale che tutta la Palestina e i dintorni ne siano informati (v. 17).

La visita di Dio

“Un grande profeta è sorto tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo” (v. 16). Il sorgere del “profeta” e la “visita di Dio” sono messi in stretto rapporto. Si tratta di un importante intervento di Dio nella storia di una persona o di un popolo: è la redenzione messianica che ha inizio; la visita di Dio è una cosa sola con quella del “sole che sorge”, cioè del messia. La folla riconosce la visita di Dio nell’apparizione di un profeta in grado di risuscitare un morto, come in passato avevano fatto Elia ed Eliseo. In ciò essa manifesta un principio di fede che la distingue dai malevoli i quali, come Simone il fariseo, rifiutano a Gesù perfino il titolo di profeta. Però, agli occhi di Luca e dei suoi lettori cristiani, sarebbe gravemente insufficiente fermarsi qui. La folla, che ha del messia un concetto nazionalistico e terreno, si limita a credere che Gesù sia a livello di Giovanni Battista, di Elia o un altro profeta risuscitato: per essa, la visita di Dio non è ancora la visita del sole che sorge; solo i discepoli riconosceranno ben presto il Gesù il messia atteso, e Pietro lo proclamerà a nome di tutti.

Gesù “servo”e “Signore”

Ma non basta riconoscere in Gesù il nuovo Mosè, il liberatore messianico ed escatologico. E’ necessario aprirsi al piano di Dio riguardante la natura della liberazione promessa e la maniera paradossale di realizzarla da parte di Gesù. In effetti, non appena Pietro ebbe proclamato la sua messianicità, Gesù rivela ai suoi la necessità della croce e della risurrezione. Riconoscere in Gesù un profeta-taumaturgo simile ad Elia, come fa la gente di Nain, significa rimanere alla superficie del suo mistero. I discepoli devono ancora ammettere la legge dell’insuccesso e del martirio inerente ad ogni missione profetica e, più profondamente, devono ancora scoprire in Gesù il “servo” sofferente e glorificato. Ma tutto questo sarà loro possibile solo alla luce della Pasqua. Tuttavia, l’evangelista Luca proietta in anticipo questa luce pasquale sulla scena di Nain: il grande profeta che trionfa sulla morte a Nain è precisamente colui che, trionfando della propria morte con la sua risurrezione, sarà riconosciuto come il “Signore” dai suoi veri discepoli, e in particolare dai due pellegrini di Emmaus.                                                                               

Bibliografia consultata: Ternant, 1972.

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