Religione, Lo straniero chiamato alla salvezza

di Il capocordata

Luca ha posto il racconto (Lc. 17, 11-19) della guarigione dei dieci lebbrosi tra una domanda degli apostoli sulla fede e una dei farisei sulla venuta del Regno. All’entrata di un villaggio si fermano alcuni lebbrosi: il loro atteggiamento è perfettamente in regola con la legislazione allora vigente (cfr Lev. 13, 9ss), alla quale si conformerà anche Gesù inviandoli ai sacerdoti. E’ ammirevole la fede di questi poveretti. Le quattro parole della loro preghiera (v. 13) hanno una ricchezza che nessun commento può rendere pienamente.

“Gesù”. Se la fede consiste nell’incontro di due persone, nel dialogo dall’io al tu, qui la loro fede si esprime perfettamente: Gesù, noi. L’”io” è divenuto qui il “noi” della comunione nella medesima sofferenza. Anche il buon ladrone (23, 42) si rivolge a Gesù in questo modo: sembra proprio che Luca abbia visto una certa analogia tra le due situazioni. L’uso del vocativo “Gesù” attira la nostra attenzione su una situazione identica. Si tratta di peccatori che, nel medesimo contesto della morte di Gesù (è in cammino verso Gerusalemme), interpellano Gesù per ottenere la liberazione dai loro mali terreni, ma otterranno di meglio: la salvezza con l’entrata in “paradiso” o nel Regno di Dio che già “è in mezzo a voi”. Questa salvezza è ottenuta grazie all’invocazione del nome di Gesù. La chiesa d’Oriente ne ha addirittura fatto una preghiera: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore!” Una preghiera molto semplice, che il monaco o il fedele ripete lungo la sua giornata e la sua vita, seguendo il ritmo della respirazione.

“Maestro”. Luca è il solo nel N.T. a far rivolgere questo titolo a Gesù per proclamare la sua onnipotenza. Sulle labbra dei lebbrosi assume un senso fortissimo: lo rivolgono a colui che è il padrone degli elementi, a colui il cui nome comanda alle potenze infernali.

“Abbi pietà di noi”. E’ il grido della miseria verso chi può alleviarla: è il grido dei lebbrosi, dei ciechi. Con questo grido si fa appello a Dio, a ciò in cui non può deluderci: il suo amore, la sua grazia. E’ il Dio misericordioso e pietoso, ricco di grazia e di fedeltà; è il gesto di colui che si china con amore verso un povero o un bambino; è l’amore tenero di Dio verso le creature. Così Gesù troverà la fede di questi infelici sufficiente per operare un miracolo in loro favore.

La guarigione (v. 14). Secondo la legislazione allora vigente, toccava al sacerdote sia constatare e diagnosticare la malattia che riconoscerne la guarigione. L’invito di Gesù a presentarsi ai sacerdoti equivale ad una promessa di guarigione. Invece di guarirli subito e poi di mandarli a far costatare questa guarigione, sembra che Gesù voglia mettere alla prova la loro fede. I lebbrosi immediatamente danno fiducia alla parola di Gesù. E’ mettendo in pratica le parole di Gesù che si ottiene ciò che si domanda. Luca mostra di essere l’evangelista dell’impegno personale.

“Mentre essi andavano, furono sanati” (v. 14). Ammiriamo la discrezione di Gesù taumaturgo. Contrariamente agli operatori di miracoli del mondo greco o, più tardi, dell’ambito rabbinico, che curano la messa in scena e accumulano sempre particolari curiosi e persino grotteschi, Gesù opera sempre i miracoli che gli si sono potuti strappare con un’estrema discrezione. Questo deve rassicurarci sulla storicità dei fatti: non c’è nulle che esprima  il desiderio di lusingare il taumaturgo.

La salvezza per lo straniero (vv. 15-19). Soltanto uno, dei dieci guariti, viene a ringraziare Gesù: e per di più, un Samaritano, uno straniero per i Giudei, un rappresentante dei pagani, che entreranno a far parte della Chiesa di Cristo. Ma chi è venuto a ringraziare? Il Samaritano si gettò ai piedi di Gesù: la prostrazione sino a toccare terra con il proprio viso è il segno di un profondo rispetto; essa si fa soltanto davanti a Dio: per il Samaritano Gesù è Dio. Per ringraziarlo, per rendere gloria a Dio: questo verbo ha sempre Dio per fine, la maggior parte delle volte espresso, talvolta sottinteso come durante l’ultima Cena o la moltiplicazione dei pani. Si tratta di un atto liturgico, l’eucaristia, che non può avere che Dio per termine. Ebbene, qui, il lebbroso rivolge a Gesù quest’atto liturgico.

“Era un samaritano”. Gesù mostra di considerare questo Samaritano non come un “fratello separato”, ma come un “pagano”. Solo lo straniero, il pagano, riconosce in Gesù l’inviato di Dio. Quest’uomo diventa il simbolo dei pagani che entrano nel regno di Dio prima degli ebrei perché hanno saputo riconoscerlo. L’evangelista vuole dirci che la missione ai pagani fa parte integrante della missione di Gesù, che egli ha solo annunciata e inaugurata. Tocca alla chiesa portarla a compimento.

La salvezza attraverso la fede (v. 19). “Alzati e và; la tua fede ti ha salvato”: ai dieci lebbrosi la fede ha ottenuto la guarigione, ma al Samaritano una fede accresciuta e approfondita ottiene ora la salvezza. Non è forse la risposta alla domanda rivolta più sopra dagli apostoli al Signore: “Aumenta la nostra fede”? Noi siamo salvati per la fede, e senza distinzione d’origine, ebrei o pagani che si sia. Ma se alcuni “poveri” la vivevano, i teologi ebrei, i farisei l’avevano dimenticata. Nulla è più lontano dal pensiero di Cristo: tutto è grazia, non si è salvati perché si fa qualcosa, ma perché si lascia che Dio faccia qualcosa in noi. E’ da Gesù crocifisso che riceviamo la salvezza, se nella fede abbiamo portato la nostra croce con lui; e “ringraziare”, “rendere gloria a Dio”: il fine ultimo dell’esistenza cristiana.                                                                                                    

Bibliografia consultata: Charpentier, 1976.

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