Rimanere nel suo amore: dal Padre al Figlio ai discepoli

di Il capocordata

Il brano del vangelo che ascolteremo domenica VI di Pasqua (Gv. 15, 9-17) segue immediatamente le parole di Gesù che si identifica con l’immagine simbolo della “vera vite”, con quella del Padre suo “l’agricoltore” e con quella dei “tralci” che siamo noi, i suoi discepoli.  In esso, la funzione del Padre emergeva come dotata di primaria importanza (è lui che coltiva la vite, butta via o pota i tralci), ma non rivelava uno stretto rapporto di natura tra il Padre e Gesù e i suoi discepoli. Con il nostro brano tutto ciò emerge con evidenza: tutto accade, perché ha origine dall’amore del Padre per Gesù, da cui l’amore si comunica ai suoi. L’applicazione da parte di Gesù ai discepoli di un’azione caratteristica del Padre verso di lui è frequente nel vangelo di Giovanni. Caratteristica è sempre la posizione mediale di Gesù, punto di riferimento di un’azione, che è azione salvifica, come quando invia gli apostoli in “missione”.

Se c’è un titolo che rende Gesù accettabile agli uomini e credano il Lui, è il fatto di essere inviato dal Padre. Nella missione si vede il punto originale (il Padre) della presenza e missione di Gesù nel mondo, e nel ritorno al Padre che lo ha inviato, per la cui gloria tutto è stato compiuto. La vita che si nasconde nel Padre deve essere comunicata fra gli uomini che ne sono i destinatari. La presenza di Gesù fra gli uomini ha questo scopo: rendere loro noto l’intimo sentire del Padre, estendendo ad essi il trattamento di cui il Figlio è fatto oggetto dal Padre. Il v. 12 (“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”) porta l’ultimo anello della catena di trasmissione di un’azione divina: l’amore partito dal Padre e trasmesso da Gesù deve essere ulteriormente diffuso dai discepoli. Il Padre ama Gesù e gli trasmette dei comandi; Gesù ama il Padre, ne osserva i comandi e trasmette i comandi ai discepoli; nell’osservanza di questi comandi i discepoli amano Gesù, diffondendo l’amore comandato da Gesù ai suoi discepoli: si chiude così la catena di trasmissione dell’amore, perché Dio è Amore!

La Salvezza attraverso l’amore

Anzitutto è l’amore del Padre per il Figlio. Si tratta di un amore eterno, che data da prima della costituzione del mondo. A livello del mistero trinitario eterno, esso esprime lo splendore dell’unità che sussiste tra il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Nella fase dell’incarnazione, l’amore del Padre è collegato al dono che Gesù fa della sua vita: Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito. L’amore del Padre si concretizza dando al Figlio in mano “ogni cosa” e manifestandogli tutto quello che fa in ordine alla salvezza in favore degli uomini. Infatti, il Figlio ci ha amato adempiendo la volontà del Padre, cioè, incamminandosi verso la morte. L’amore che parte dal Padre, si indirizza al Figlio e raggiunge gli uomini, vuole essere diffuso dagli uomini. Ora proprio questo è il comando di Gesù: che ci si ami a vicenda, per essere riconosciuti come discepoli di Gesù.

Ma qual è la natura di questo amore o “agape” tra il Padre e il Figlio? Comprendiamo che si tratta di una realtà fondamentale, che esprime la relazione e il trasporto intimo che unisce il Padre e il Figlio. Nella descrizione dell’amore del Figlio, è interessante notare che esso si esprime nel comandamento di Dio: l’opera di Gesù in favore del mondo è un’obbedienza al comando del Padre. In quest’opera si realizza la risposta di Gesù all’amore del Padre, per essa egli rimane nell’amore del Padre. La stessa cosa avverrà per il rapporto di amore tra Gesù e i discepoli. In tal modo, l’amore-“agape” acquista automaticamente una dimensione etica.

“Rimanete nel mio amore” (v. 9): si tratta di un comando, anche se è effetto dell’osservanza dei comandamenti di Gesù, cioè dell’impegno nell’amore reciproco. Rimanere in Gesù come il tralcio rimane attaccato alla vite: l’intima unione che lega il tralcio alla vite deve sussistere tra il discepolo e Gesù. Inoltre, rimanere in Gesù significa rimanere nella sua parola, la quale ha il potere di purificare il discepolo: l’atto salvifico ci ha mondati tramite la parola rivelatrice e ci ha posti nella comunione col mondo divino che noi accettiamo continuamente attraverso la nostra fede, volendo rimanere, appunto, nell’amore di Gesù. La carità che contraddistingue la vita divina è comunicata agli uomini e da essi deve essere fatta regola di vita. Rimane nell’amore di Gesù chi accetta di trasporre nella propria vita la modalità d’amore con cui Cristo ci ha amato, “fino alla fine”. Il rapporto d’amore tra Gesù e i discepoli è retto da una legge: essa esige che “vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (v. 12). Rileviamo che il “come” non è soltanto un esempio, ma anche causa, anzi l’unico criterio. Non quindi amore agli altri per simpatia reciproca, non per convenienza e utilità, neppure primariamente per riconoscenza: ma come e perché Gesù ci ha amato!

Chi è entrato nel rapporto d’amore con Gesù riporta nella sua vita conseguenze assai importanti. “Portare frutto” (v. 16): il tralcio deve rimanere nella vite per portare frutto, allo stesso modo deve rimanere il discepolo in Gesù. Il diventare discepoli è portare frutto ed è dare gloria al Padre, osservando i suoi comandamenti, fra i quali eccelle quello dell’amore. Inoltre, chi fa frutto può chiedere al Padre qualunque cosa nel nome di Gesù, e dal Padre sarà esaudito (v. 16). Nessuno ha tanto diritto di essere temerario nelle sue richieste col Padre, come chi ha votato interamente la sua vita all’amore!

Conclusione di tutto il discorso può essere ritenuta la conseguenza della gioia, che è piena a causa della parola rivelatrice del Figlio e dell’osservanza dell’impegno che essa pone da parte dei discepoli. Gioia è una realtà strettamente legata con il compimento della missione di Gesù. La gioia dei discepoli è partecipazione alla gioia di Gesù (“La mia gioia sia in voi”): essa passa attraverso i dolori di questa esistenza, ma sfocia nella beatitudine di quella futura.                                                                                     

Bibliografia consultata: Ghiberti, 1971.

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