Rock in Roma, report nostalgico sui Queens Of The Stone Age

“Non ho più l’età per ‘pogarti’, Josh”. Il report nostalgico di una assidua frequentatrice di concerti

"Non ho l’età" cantava Gigliola Cinquetti quando nel 1964 vinse il Festival di Sanremo. Aveva solo sedici anni. Non ho più l’età, constatavo con una cara amica  al concerto romano dei Queens Of The Stone Age che ha aperto la stagione di Rock In Roma.

Un’età, per quanto concerne chi scrive di 36 anni, che dopo il Festival “Rock in Idro” a Milano nel giugno 2011 per ascoltare finalmente dal vivo i  Foo Fighters  di Dave Grohl si è manifestata in tutte le sue crepe ed idiosincrasie. Da quando cioè, stando in piedi ore ed ore, mi sono accorta che Iggy Pop e i suoi Stooges stavano suonando sul palco “I Wanna Be Your Dog” e io aspettavo con i piedi gonfi il rancio (da non confondersi con “RANCHO DE LA LUNA”, nda), che poi era un panino e una bottiglietta d’acqua, in un giornata umida ed afosa come solo a Milano può esserlo.

Dicevamo, non ho più l’età per i festival rock e, ammettiamolo, nemmeno per la platea dei concerti rock singoli. Non sono più quella della seconda fila allo Stadio Flaminio nel 1993 per due concerti consecutivi degli U2 né quella che era tra le prime file in mezzo al pogo a prendersi pugni, e ad esibire fiera i lividi del giorno dopo, al concerto dei Nirvana nel febbraio  del 1994.

Ho 36 anni, soffro di ritenzione idrica e sono stanca. Così, ascoltando le mie preghiere, Josh Homme e soci hanno suonato per un’ora e mezza, bella piena, intensa ma concisa, abbastanza breve essendo abituata alle tre ore e mezza del più che sessantenne Bruce Springsteen. Tutto condensato in brani da "Rated R" passando per "Songs For The Deaf ", come quando li vidi a Bologna nel 2005 all’Independent Festival aprire il concerto, ebbene sì, degli headliner Subsonica e a Milano all’Alcatraz nel giugno 2007.

Uno dei miei pregiudizi, ne sono abbondantemente fornita, è che una volta arrivate a suonare nella capitale le band internazionali siano artisticamente finite, dato che non ci vengono poi tanto di frequente. A proposito, mi rivolgo a quelli della mia generazione: ricordate quando negli anni Novanta, non so perché, tutti suonavano a Nonantola in provincia di Modena? P.J. Harvey, Nick Cave e altri da scegliere a caso.

Torniamo ai Qotsa, l’ultimo album non sprizza genialità, ma loro restano una grande band e martedì scorso a Rock in Roma lo hanno confermato. Il sound desertico, i riff insinuanti, le chitarre abrasive, prima su tutto quella di Josh che non può non ricordarci il suo passato di giovanissimo componente dei Kyuss. Il cambio frequente, ma sempre ottimo, di line up, ricordavo alla batteria Joey Castillo, mentre attualmente c’è Jon Theodore, ha dato proficui esiti e nessun rimpianto per il taurino batterista tatuato. Accanto a Josh ( per gli amici, nda) resta il fidato Troy Dean Van Leeuwen che più passano gli anni e più sembra il fratello brutto di Trent Reznor.

La scaletta riserva poche soprese. Si apre con “(You Think I Ain't Worth a Dollar, But I Feel Like a) Millionaire” e si prosegue proprio come nella tracklist di “Songs for the Deaf” ( 2002 ) con “No One Knows”. Josh ha migliorato la qualità e la prestazione vocale, il suono della band è apparso compatto, assolutamente energico, senza cedimenti, davvero granitico. Dal vivo velocizzano sempre un po’ tutti i brani, ma non ne risentono minimamente.

Con “My God is the Sun” si va verso l’ultimo album: “Like Clockwork”( 2013 ) non proprio memorabilissimo se si confronta tutta la discografia dei Qotsa. Poi con “Burn The Witch” si torna al passato di “Lullabies To Paralyze” ( 2005) di cui eseguiranno anche le vigorose “Little Sister” e “In my Head”. Di nuovo, brani tratti dall’ultimo lavoro: “Smooth Sailing” e “I Sat by the Ocean”, quest’ultimo ha virate un po’ troppo ‘poppettare’ per chi scrive, sembra quasi che vogliano conquistare il mercato di massa dei teenager.

Per fortuna ci pensano brani ‘storici’ come “Feel Good Hit of The Summer” e “The Lost Art of Keeping a Secret” del bellissimo “Rated R” ( 2000 ) a farci godere del loro genio. Da “Era Vulgaris” ( 2007 ) tirano fuori “Sick, Sick, Sick, “ Make It a Wi Chu” e  "3's and 7' s".

Spazio al vecchio epocale e poco al nuovo, quindi, non proprio memorabilissimo o, almeno poco competitivo quando hai fatto un disco, solo per citarne uno su tutti, che si intitola “Songs for the deaf” da cui estraggono anche una martellante " Go With The Flow".

Al solito, l’acustica non è delle migliori, ma qualcuno mi faccia il nome di un solo luogo a Roma dove si ascolta bene la musica e che contenga la copiosa platea di martedì scorso.

Rientrano per il finale. L’atmosfera si fa intimista con Josh al pianoforte che suona “The Vampyre of Time and Memory”, forse il brano migliore dell’ultimo lavoro. Magico, crepuscolare, notevolmente emozionante. La chiusura, come l’ apertura, è affidata a “ Songs for the deaf”, e a quello che ritengo il loro brano più rappresentativo, reboante, abrasivo e ipnotico nello stesso tempo: “A Song for the Deaf”. Dove la potente batteria di Dave Grohl che suonava sul disco non si fa rimpiangere nella macchina del suono che macina ritmi vorticosi di Jon Theodore.

E poi di corsa, si torna a casa con passo a mo’ di marcetta, ché non ho più l’età per fare tardi. Su, su, mica vorrai restare bloccata nel traffico con tutta ‘sta gente qui?

 

*Scritto da Mariagloria Fontana su Le Città delle Donne

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