Siamo un Paese civile? L’Onu ci dice no e viene a controllare

L’Onu dovrebbe inviare gli ispettori per valutare se viene violato il diritto alla salute e alla sicurezza e non per razzismo

È notizia di questi giorni quella che ha suscitato polemiche e indignazione, a tutti i livelli, secondo la quale l’alto commissario ONU per i diritti umani ha annunciato l’invio in Italia di personale allo scopo di valutare la presenza di atti di violenza e razzismo nei confronti di migranti e rom. Strana dichiarazione quella del neo commissario Bachelet considerando che la nostra repubblica si basa su una costituzione, pur se risalente al 1947, ben poco nazionalista e apertamente garantista visto che non fa distinzione alcuna di razza, religione e lingua. Chiaramente il cambio di schieramento governativo, avvenuto con le ultime elezioni, ha destato e continua a destare preoccupazione non solo a livello europeo ma anche mondiale in considerazione del semplice fatto che l’Italia sembra aver riacquistato un proprio orientamento cognitivo politico, giusto o sbagliato che sia, sganciato dal volere di altre nazioni che finora hanno direttamente o indirettamente orientato numerose scelte di governo del nostro Paese.

Risulta essere apparentemente incomprensibile l’accusa di razzismo mossa dall’ONU ad una nazione la cui responsabilità risulta essere il tentativo di far rispettare leggi o accordi internazionali all’interno di una Unione Europea in cui gli stati membri da un lato esigono che l’Italia accolga flussi migratori pressoché incontrollati e dall’altro ne impediscono paradossalmente l’ingresso successivo nei propri territori. Basta poco, pertanto, per capire quanto realmente o infondatamente sia stata elaborata tale accusa che risulterebbe accettabile se l’Italia fosse l’unica nazione all’interno dell’UE ad impedire l’ingresso ai migranti che, ormai, da numerosi anni sono presenti nel nostro Paese con numeri di tutto rispetto.

Al di là di simili considerazioni, tuttavia, l’episodio che vede l’ONU protagonista ci porta a porci una domanda: l’Italia, al di là del discorso migranti e del presunto razzismo nei loro confronti, è una nazione civile? Da cosa si valuta la civiltà di un Paese?

Voltaire, già nel 1700 così si esprimeva: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”; di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e, qualche anno fa, la Corte di Strasburgo imponeva all’Italia di trovare una soluzione al problema del sovraffollamento delle carceri; l’allora governo Letta approvò un decreto legge che ridusse il numero dei detenuti, permettendo di scontare la pena con forme alternative al carcere. In realtà il problema non è stato risolto, ma si è nascosta la polvere sotto il tappeto per vederla riapparire dopo un po’ di tempo; il costo della costruzione e gestione di nuove carceri ha, di fatto, dissuaso il governo Letta così come quelli successivi a riorganizzare il sistema carcerario lasciando pressoché immutata una situazione pregressa sempre più precaria. Voltaire cosa avrebbe detto dell’Italia? Lo avrebbe considerato un Paese civile degno del suo ruolo di nazione tra le più industrializzate del mondo? Difficile anche se, oggi, non è solo la situazione delle carceri ad essere il termometro del grado di civiltà di un Paese bensì diversi altri aspetti posti alla base di uno stato sovrano.

L’andamento della giustizia ma soprattutto l’applicazione del diritto e la sua certezza sono una importante nota dolente nel contesto generale del Paese; il principio della certezza del diritto, in base al quale il diritto deve ricevere una applicazione prevedibile, perde sempre più consistenza e spessore e se per Beccaria, non l'intensità, ma l'estensione, la certezza e la prontezza della pena esercitano un ruolo preventivo dei reati, oggi l’applicazione certa del diritto e la certezza della pena si allontanano sempre più da tale concetto lasciando il popolo in una sorta di sconforto e conseguente sfiducia nelle istituzioni a tutto vantaggio di chi delinque.

Riguardo alla mancata applicazione o al mancato rispetto di norme e principi, anche costituzionalmente sanciti, spicca il diritto alla salute, previsto e tutelato dall’art.32 costituzione, in merito al quale quotidianamente si registra una severa violazione aggravata, nell’ultimo decennio, dalla chiusura di almeno 175 ospedali e dalla soppressione di oltre 70.000 posti letto con un inevitabile appesantimento delle liste di attesa per l’accesso alle prestazioni sanitarie e un maggior esborso del cittadino costretto ad orientarsi verso il privato o addirittura rivolgersi al sistema sanitario di altre nazioni. Tale diritto è continuamente violato attraverso atti, comportamenti od omissioni contro le quali il cittadino ha solo teoricamente la possibilità di difesa e di intervento, sia attraverso atti stragiudiziali, sia attraverso ricorsi amministrativi, sia, infine, con il ricorso all’azione giudiziaria civile o penale con una chiara vanificazione di quella che è la prontezza dei tempi in ambito sanitario.

Quello della sanità, tuttavia, non è l’unico tema la cui precarietà i cittadini avvertono fortemente; l’esigenza di una maggiore sicurezza è, infatti, avvertita in maniera evidente da parte della popolazione a fronte di un aumento della microcriminalità costituita soprattutto da quelli che vengono definiti “atti criminosi predatori”, eppure l’articolo 3 della dichiarazione universale dei diritti umani sancisce che ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona, tutela dell’incolumità personale che sempre meno avviene nelle nostre città in cui zone del loro territorio sono off limits per la pericolosità delle stesse.

Alla luce di queste brevi considerazioni ci si chiede, pertanto, se non sia il caso per l’ONU di inviare i propri ispettori allo scopo di valutare se il mancato rispetto di diritti fondamentali quali quello alla salute, alla sicurezza personale, delle umane condizioni delle carceri, della certezza del diritto e della pena non siano preponderanti, in quanto elementi fondanti di una nazione, rispetto alla valutazione sull’esistenza di presunti atti di razzismo mentre nelle città le nuove generazioni – figli di immigrati africani, cinesi, asiatici e latino americani tutti perfettamente integrati nella nostra società “razzista” – non solo parlano correntemente l’italiano ma anche il milanese, il romanesco o il siciliano ritrovandosi ad essere, spesso, più italiani degli italiani non solo dal punto di vista legale attualizzando in modo naturale e spontaneo il pensiero di Roosevelt “Ad ogni immigrante che arriva in questo Paese dovrebbe essere richiesto d'imparare l'inglese in cinque anni o di lasciare il Paese”.

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