Categorie: Cronaca

Sisto, l’ultimo sopravvissuto al rastrellamento nazista del Quadraro

Giovedì 5 ottobre è morto a Roma Sisto Quaranta, l'ultimo sopravvissuto al rastrellamento del Quadraro del 17 aprile 1944. Quaranta aveva 93 anni, a darne la notizia è stata l'Anpi della Capitale. Alcuni anni fa Sisto raccontò la sua tragica esperienza a un giornalista, e nei giorni scorsi "Il Fatto Quotidiano" ha pubblicato uno stralcio della storia, che riportiamo qui. Quaranta inizia col rievocare la sua infanzia, il suo passato remoto:  “Abitavamo a Zagarolo… Io ci sono nato, a Zagarolo, un po’ d’anni fa…,nel 1924. Nel 1929 ci trasferimmo a Roma. Avevo cinque anni. Nel 30  andammo a vivere a Trastevere, dove mio padre gestiva un’osteria a via San Francesco a Ripa.

"Avevamo trovato l’Eldorado", dice, “Roma c’aveva portato fortuna dopo tante tribolazioni”.

C’ha sei anni e incomincia le scuole. Studia sotto al Gianicolo.

“Quattro anni dopo, un bel giorno il padrone del locale chiamò mio padre e gli disse:

– Senti un po’, sta per ritornare mio figlio da soldato. È disoccupato, e un’attività io gliela devo dare.

E così mio padre dovette lasciare l’osteria. E l’Eldorado finì“.

Vanno a Centocelle per un anno, poi arrivano al Quadraro, a via Pietro Cuppari.

L’8 settembre Sisto sta lavorando in un’officina a Trastevere, quando a un certo punto “venne la figlia del portiere dello stabile in cui stava l’officina, mi chiamò e disse:

– Sisto… Sisto! Hai sentito? C’è stato l’armistizio!

Fu veramente un momento di gioia. Per noi la guerra era finita, e stavano per finire anche le tribolazioni. Ricordo che lasciai il lavoro, presi il tram e venni subito al Quadraro. La fermata del tram era proprio davanti al cinema Quadraro, dove trovai degli amici e tutti insieme facemmo festa. Con l’armistizio per noi non era finita solo la guerra, ma anche la fame, la sete, la povertà. Invece no. Non era la fine. Era l’inizio della fine.

Quel giorno ci fu il bombardamento di Frascati. Ci mettemmo davanti alla finestra. Dopo un quarto d’ora vedemmo Frascati che andava a fuoco. Un bombardamento che spaccò tutto. Un disastro. E noi lì, increduli, a vedere quello scenario di fuoco dalla finestra, in piena notte. Perché era successo tutto questo? Perché a Frascati Kesserling aveva stabilito il suo quartier generale. È logico che gli Americani, una volta su, je dettero giù… E fecero un sacco di vittime“.

Il Quadraro, nel 1940, era un quartiere isolatissimo. Era una manciata di case buttate in mezzo a una distesa di prati, isolato dalla Marranella, da Tor Pignattara, da Centocelle. E proprio quell’isolamento diede modo ai tedeschi di poter fare il rastrellamento senza essere disturbati. Era il 17 aprile del 44.

“Mia madre, alle quattro e mezzo, si alzò per andare in bagno. Si affacciò alla finestra che dava sugli orti, dove c’era il gallinaio di un amico nostro con sette-otto galline. Mia madre vide delle ombre intorno al gallinaio. Venne di corsa a svegliarmi.

– Sisto… Sisto! Stanno a rubba’ le galline de Silvio!

Io, mezzo insonnolito, le dissi queste testuali parole: – ’A mamma… ma che me frega a me d’e galline de Silvio! Tra ’n’ora me devo arza’ p’anna’ a lavora’, e te me stai a fa’ ’sta storia? E lei si ritirò. Non passò un quarto d’ora, che successe il finimondo. Spaccarono cancelli, porte, finestre, tutto quello che avevano davanti. Evidentemente era un’ora stabilita o un segnale stabilito.

Vedemmo entrare dentro le nostre case questi tedeschi infuriati, pazzi, sembravano addirittura drogati. Non c’era modo di dirgli qualche cosa, non accettavano nessun dialogo con noi. Anzi, se provavamo a dire una parola, ci colpivano con il calcio dei fucili addosso alle spalle, in faccia, dove capitava. Dovevano fare presto. Dovevano portare via quella gente a tutti i costi e subito.

Durante quest’operazione, ci davano un foglietto – lo conservo ancora – dove c’era scritto di portarsi i documenti, un cucchiaio, una forchetta, una gavetta e qualche cosa di biancheria. E mentre uno ci dava questi foglietti, un altro strillava perché dovevamo fare presto. Era il caos: donne che piangevano, che urlavano, erano madri che si vedevano portar via i figli e mogli che si vedevano portar via i mariti. Una tragedia.

Non sapevo che fare. Poi mi venne in mente di coprirmi di più con la copertina che avevo addosso e fingermi malato.

Mi finsi malato.

Vennero due tedeschi nella mia stanza, mi videro a letto e mi puntarono il mitra addosso. Dissi subito:

– Io malato… io malato… febbre… malato…

Non l’avessi mai detto! Uno si incavolò di brutto, mi poggiò il mitra addosso e cominciò a urlare:

– Via! Via!

Nel frattempo, l’altro mi dava il foglietto. Mia sorella non capiva più niente. Presa dalla paura e dallo sconforto, tirò fuori dall’armadio un trench molto leggero, lo appalloccò e me lo lanciò a mo’ di palla. Lo presi al volo. Non sapevo nemmeno che fine avesse fatto mia madre, penso fosse svenuta, perché non la vedevo più. E mi portarono via.

Mentre scendevo le scale, con la testa confusa, pensavo: ‘Ma che ho fatto di male? Perché mi portano via?’ Una volta fuori dal palazzo dove abitavo, trovai una fila di miei amici già rastrellati, con le mani in testa e la faccia rivolta verso il muro. Solo allora capii che era un rastrellamento in grande stile. Mai a Roma ne era stato fatto uno di queste proporzioni”.

I civili del Quadraro arrivano al campo di Ratibor e sono venduti al mercato degli schiavi. Sisto dichiara di essere eletricisti e con altri 90 è trasferito a Rhumspringe. Sono sistemati nelle baracche. Con altri 14, è destinato a Hilkerode. Il cantiere, dove lavora come elettricista, gli appare una bolgia, “grande come il Quadraro”.

Sono giornate interminabili, con insopportabili ritmi di lavoro. A Hilkerode, nelle baracche infestate di pidocchi, impara la disciplina tedesca fatta di minacce e di punizioni esemplari. Fame e freddo sono le parole chiave: gli italiani si contendono le bucce di patate e i sacchi di cemento per ripararsi dal gelo.

La sottoalimentazione e la fatica, l’incuria, falcidiano i suoi compagni. Sisto come tutti cerca di sopravvivere, rischiando tutte le possibili punizioni per portar fuori dalla fabbrica i giocattoli di lamiera, che costruisce e che baratta di nascosto in cambio di cibo con le guardie e con le donne del paese. Un giorno finge un incidente e distrugge un’intera confezione di interruttori di porcellana.

Le condizioni fisiche si fanno più precarie, il lavoro più pesante. E’ allo stremo quando il 22 aprile giungono gli alleati. Partecipa al saccheggio della fabbrica e poi raggiunge Gottinga con altri 40 per l’orgia del dopo liberazione. Lavora come elettricista meccanico per gli americani, poi organizza spettacolini musicali fino al rimpatrio. È a Roma il 9 agosto 1945.

 

 

Redazione

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