Termovalorizzatori. Il Lazio si barcamena, Roma cerca altre soluzioni

Distruggere gli scarti è un modo vecchio di ragionare. La rivoluzione, possibile, è produrne meno e riciclare tanto

Ieri lo avevamo solo accennato: in Italia, in base ai dati forniti dal Rapporto Ispra 2017, ci sono 41 impianti tra inceneritori e termovalorizzatori. Il 63 per cento è distribuito al Nord. Qui nel Lazio ce ne sono tre, ubicati a Roma-Malagrotta, Colleferro (RM) e a San Vittore (FR), ma sono in funzione solo il primo e il terzo. Un quarto, inoltre, era stato programmato dal governo Renzi ma poi il progetto si è arenato.

Oggi entriamo nei dettagli. Anche se, ed è doveroso precisarlo subito, si tratterà per forza di cose di indicazioni sintetiche. Su ciascuno dei temi che stiamo passando in rassegna si potrebbero aprire dei veri e propri dossier. Come viene fatto, del resto, da chi se ne occupa in modo specializzato, a cominciare dai soggetti istituzionali e dalle associazioni ambientaliste. Una parte dei dati che esporremo proviene appunto dal Rapporto Ispra 2018. A proposito: l’Ispra è l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, un ente pubblico di ricerca che è stato istituito con la legge 133/2008  ed è sottoposto alla vigilanza del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Il Ministro, viene precisato sul sito ufficiale, “si avvale dell’Istituto nell’esercizio delle proprie attribuzioni, impartendo le direttive generali per il perseguimento dei compiti istituzionali”.

I termovalorizzatori in Italia

Al primo posto, e di gran lunga, c’è la Lombardia. Tredici strutture che le permettono di farsi carico non solo dei rifiuti territoriali, ma anche di cospicue quantità di quelli accumulati da altre regioni. Tra le quali spicca proprio quella Campania che è appena tornata sotto i riflettori, per l’incombere dell’ennesima ‘emergenza’ e per le polemiche che si sono scatenate tra Salvini e gli M5S. Salvini, come abbiamo scritto nell’articolo di ieri, ha minacciato di intervenire d’autorità, qualora non si trovi alla svelta una soluzione stabile in loco, e ha prontamente scodellato la sua ricetta elementare: “Un termovalorizzatore in ogni provincia”. I vari Di Maio, Fico e Di Battista lo hanno seccamente zittito, chi ricordandogli che nel Contratto di governo questo tipo di interventi non è previsto, chi mandandolo, quasi letteralmente, al diavolo.

Al secondo posto troviamo l’Emilia Romagna, che ha otto impianti, mentre nelle altre regioni si scende a picco: in Veneto ce ne sono due, in Piemonte, Trentino Alto Adige e Fiuli Venezia Giulia uno solo, otto sono collocati nel centro Italia (Toscana, Umbria, Marche e Lazio) e sette nel Sud. Ma attenzione: in Abruzzo e in Sicilia non ne esiste neanche uno.

Fermiamoci un momento con gli elenchi, a questo punto, e fissiamo un aspetto prioritario. Il trasferimento altrove dei rifiuti dovrebbe essere un caso eccezionale. Le direttive europee identificano i cardini dello smaltimento nella autosufficienza e nella prossimità. Se non proprio nel comune, nella provincia. Se non proprio nella provincia, nella regione.

Figurarsi.

Per molti/troppi amministratori pubblici le norme, specialmente quelle UE, sono poco più che delle raccomandazioni di principio, e quindi ognuno si destreggia come gli capita. O come gli conviene. Il punto, infatti, è che intervenire in maniera strategica è quasi sempre più rischioso, nel rapporto coi cittadini/elettori, di quanto non sia limitarsi a gestire l’esistente. Un piano ben articolato richiede investimenti massicci e obiettivi precisi: entrambi balzano all’occhio e tendono a suscitare reazioni forti. Spesso negative. Meglio, allora, tirare avanti senza lanciarsi in grandi innovazioni. I costi saranno diluiti, o sembreranno esserlo, e in caso di particolari e insormontabili difficoltà (le succitate, cosiddette ‘emergenze’) si avrà la scusa per adottare misure straordinarie. A prezzi, si capisce, non proprio di favore.

Rivolgersi a terzi ha un costo compreso fra i 110 e i 150 euro a tonnellata, ai quali vanno aggiunti gli oneri del trasporto. Considerato che la produzione pro-capite di rifiuti è nell’ordine della mezza tonnellata all’anno, le cifre sono ovviamente ingentissime.

Roma. Sarà una vera rivoluzione?

Per quanto riguarda la Capitale, lo studio elaborato da Legambiente afferma che nel 2017 “più di 700.000 tonnellate di rifiuti sono state bruciate nei termovalorizzatori di altri territori, il 41% del totale”. Una situazione che nel breve termine non ha vie d’uscita.

L’amministrazione Raggi, in linea con l’orientamento ‘storico’ del M5S, vorrebbe venirne a capo riducendo drasticamente il fabbisogno comunale, attraverso un potenziamento massiccio della raccolta differenziata. La cui percentuale, a inizio anno, era del 44,3.

Il volano di un incremento poderoso è la diffusione a tappeto del servizio porta a porta. Che nelle intenzioni dovrebbe essere esteso all’intera città entro il 2021, e che però sta facendo i conti con una lunga serie di difficoltà. La percentuale di cittadini che ne usufruiscono sfiora complessivamente il 33, ma la distribuzione non è affatto omogenea: solo tre municipi sono al sopra del 50 (IX a 87,90, VI a 77,66 e I a 53,93) e un altro è molto vicino a questa soglia (X a 49,63). Per il resto, gli scaglioni intermedi sono tutti rappresentati. Fino allo zero, tondo tondo, del municipio V.

D’altro canto, bisogna pur riconoscere che si tratta di abbandonare l’approccio preesistente e di mettere in piedi un sistema alternativo. Gli inceneritori, o termovalorizzatori che dir si voglia, sono comunque il passato. Perché sono incardinati sulla vecchia logica della produzione smodata e del consumo forsennato.

Quello di cui c’è bisogno, invece, è spostare all’indietro il punto di inizio dell’intero ragionamento: non stiamo semplicemente buttando via qualcosa che non ci serve più, ma stiamo ‘restituendo’ le materie prime di cui è composto. Affinché possano diventare qualcos’altro. Che sarà utile a qualcun altro.

Rapporto Ispra 2018

Legambiente  Lazio  – Dossier  Rifiuti Roma 2018 

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