Tommaso l’incredulo

Dall’esperienza fisica alla fede spirituale

Nel vangelo di Giovanni per tre volte Tommaso, uno dei Dodici, è chiamato Didimo. Già nell’antichità gli studiosi hanno voluto vedere in questo soprannome un significato simbolico che avrebbe caratterizzato Tommaso come il discepolo che dubita: colui che è diviso in due, una persona divisa in se stessa, colui che non crede facilmente. Altri, più semplicemente, affermano che Didimo significa gemello. Nel IV vangelo (Gv. 20, 19-31), l’apostolo Tommaso appare come un uomo tutto d’un pezzo, che giudica le cose secondo un suo modo di vedere e stenta ad entrare nel pensiero degli altri. Inoltre, sembra impressionabile ma fondamentalmente generoso e leale verso il suo maestro. Quando giunge la notizia della morte di Lazzaro, è lui che esclama di andare a morire insieme a Gesù.

Dal vangelo risulta che parecchi apostoli erano stati assaliti dal dubbio di fronte alla testimonianza delle donne circa la risurrezione di Gesù. L’atteggiamento di dubbio di cui dà prova Tommaso rientra nella norma generale degli altri apostoli che manifestano lo stesso dubbio sulla notizia del sepolcro vuoto. L’evangelista  Giovanni, fissandosi unicamente sul dubbio di Tommaso, vuole innanzitutto mettere in luce la duplice natura, fisica e spirituale, del corpo del Cristo risorto, e in secondo luogo vuole far comprendere come si passi dalla esperienza fisica alla fede spirituale. Ma, soprattutto, egli ha in mente la condizione in cui si trovano coloro che, senza essere stati testimoni oculari della presenza corporea del Cristo, devono tuttavia credere in lui e vivere di lui. Il suo sguardo spazia quindi nel futuro della chiesa intera.

Tommaso non è presente alla prima apparizione del Cristo nel giorno di Pasqua. Con un carattere come il suo, è naturale che chiedesse un supplemento di certezza prima di impegnarsi a portare il lieto annunzio fino all’India, come vuole la tradizione storica. Egli si rifiuta di credere alla testimonianza dei suoi fratelli: rimane freddo di fronte al loro entusiastico racconto sulla visione del maestro risorto la sera di Pasqua. Si fiderà soltanto dell’evidenza dei propri sensi: vuole vedere e toccare le piaghe del crocifisso risorto. Evidentemente questo dubbio così radicale ha un grande valore apologetico (di difesa) per la fede cristiana.

Gesù appare ai dieci apostoli nel cenacolo ed entra a porte chiuse. L’evangelista vuole mettere in evidenza la condizione particolare e misteriosa del Risorto, abbastanza corporea perché siano visibili le sue piaghe e il suo costato, e abbastanza immateriale per consentirgli di passare attraverso porte chiuse. E dopo aver salutato gli apostoli, Gesù sembra voler accontentare le esigenti richieste di Tommaso: quelle di toccare un corpo reale e vivo e non di un essere immaginario. Successivamente, invece, Gesù rimprovera Tommaso invitandolo a diventare un vero credente nella realtà del Cristo risorto. Non sappiamo se l’apostolo abbia preso alla lettera l’invito del maestro e abbia realmente messo le dita nelle sue piaghe. Probabilmente gli sarà bastata la frase così forte di Gesù: “Non essere incredulo ma credente” (v. 27). Allora rispose Tommaso: “Signore mio e Dio mio” (v. 28). Questa fulgida confessione di fede cristiana spunta sulle labbra dell’incredulo Tommaso dall’evidenza della risurrezione.

In maniera spontanea, anzi appassionata, Tommaso esprime in essa la sua fede totale nella divinità del Cristo. Il contesto che evoca la formula di fede di Tommaso è in primissimo luogo la letteratura giudaica e biblica. Tommaso esalta il Cristo risorto con gli stessi termini usati abitualmente dai giudei per onorare Dio. Nella risposta di Gesù distinguiamo due parti: la prima riguarda Tommaso e gli altri apostoli (“Perché mi hai veduto, tu hai creduto”); la seconda è riferita a tutti i credenti di tutti i tempi (“Beati quelli che crederanno senza aver veduto”).

La fede cristiana nasce dalla vista, dall’incontro con l’esperienza del Cristo. Per l’evangelista il punto di partenza del cristianesimo si trova in fatti storici che è stato possibile constatare, controllare, stabilire e dei quali alcuni testimoni scelti hanno reso testimonianza: il Cristo della fede cristiana implica e presuppone il Gesù della storia. Il teologo Giovanni tiene i piedi ben piantati nella storia, in una storia autenticata da testimoni. In lui, teologia e storia non si contraddicono, ma sono abbracciate l’una nell’altra.

Nella seconda parte della risposta di Gesù, l’orizzonte improvvisamente si allarga. Al di là dell’apostolo Tommaso, si intravede la chiesa credente dei secoli futuri. La beatitudine, la felicità, la gioia sono promesse a tutti i credenti che non sono stati testimoni oculari dei fatti riportati, a tutti i cristiani che, di generazione in generazione, suppliranno con l’ardore della fede a ciò che loro  manca di presenza visibile del Cristo. Tuttavia è possibile che Giovanni, scrivendo alla fine del primo secolo, pensi in modo speciale ai cristiani del suo tempo. Quando redigeva il suo Vangelo, la chiesa era composta, in gran parte, di uomini e di donne che non erano stati testimoni delle apparizioni del Cristo glorioso, ma che credevano nella sua presenza e la vivevano intensamente: viene espressa così ancora una volta l’unità e la continuità tra Gesù di Nazareth il Gesù della storia, e il Cristo della prima comunità credente.

I versetti 30 e 31 del capitolo analizzato concludono tutto il IV vangelo, scrivendo il quale Giovanni non si è prefisso di raccontare tutti i segni compiuti da Gesù, di presentarci la sua biografia completa. Egli ha operato una scelta tra questi segni, conservando quelli più adatti a generare e a nutrire la fede. Giovanni si rivolge a coloro che credono già nel Cristo ma che devono progredire sempre più in questa vita di fede. In questi ultimi versetti, l’autore indica molto logicamente e brevemente l’oggetto della fede cristiana: credere che Gesù è il Cristo, che è il Figlio di Dio. Egli è veramente Dio, come l’apostolo Tommaso ha proclamato in questo episodio che abbiamo meditato. Questa fede in Gesù è già la vita, una vita spirituale presente già fin d’ora nel Cristo e nello stesso tempo rimane tesa verso una perfezione sempre più grande.

La chiesa invita anche noi a ripercorrere il cammino che dalla vista porta alla fede, dall’ascolto della Parola alla confessione della fede. Anche noi forse, come Tommaso, abbiamo conosciuto momenti di incredulità, anche noi siamo alla ricerca di una certezza assoluta nei riguardi di Gesù risorto. La lettura di questo vangelo ci invita ad accrescere incessantemente la nostra fede nella presenza spirituale del Cristo in mezzo a noi: beati quelli che crederanno senza aver veduto!                                             

Bibliografia consultata: Seynaeve, 1971.

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