Categorie: Politica

Usa, la richiesta di impeachment per Trump e i paraocchi dei Democratici

In un modo o nell’altro, gli Stati Uniti restano sempre il centro del mondo – e il fulcro dell’attenzione mediatica. Lo sono stati in occasione del vertice Onu sul clima – con tanto di sciopero globale della gioventù al grido “Gretini di tutto il mondo, unitevi!”

Ma a volte capita anche che i riflettori si accendano per questioni più serie: o meglio, che sarebbero più serie, se solo avessero un qualche fondamento. Come l’avvio dell’inchiesta per l’impeachment del Presidente Donald Trump. Si tratta di un meccanismo, prevista dalla Costituzione americana, volto al rinvio a giudizio del titolare di un incarico governativo, ed eventualmente alla sua rimozione dalla propria funzione.

Nel caso del tycoon, il casus belli è rappresentato dall’ammissione dello stesso Trump di aver parlato, durante una telefonata con il Presidente ucraino Volodymyr Zelens'kyj, del possibile candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden. Secondo la narrazione del Partito dell’Asinello, The Donald avrebbe preteso dal suo omologo la riapertura di un’inchiesta giudiziaria contro Hunter Biden, figlio del suo rivale ed ex membro del board della principale azienda produttrice di gas in Ucraina. In caso contrario, il Presidente Usa sarebbe arrivato a minacciare la sospensione di una fornitura economica al Governo di Kiev.

«Nessuno è al di sopra della legge» ha tuonato la speaker democratica della Camera, Nancy Pelosi, annunciando l’apertura del procedimento. Trump ha reagito a suo modo, liquidando il tutto come l’ennesima caccia alle streghe: e, soprattutto, autorizzando «la pubblicazione della trascrizione completa, declassificata e non censurata» della sua telefonata con Zelens'kyj. Da cui è emerso, as usual, il nulla.

Nessun ricatto, nessun complotto internazionale, nessuna trama oscura contro gli avversari politici. La pietra dello scandalo sarebbe un passaggio in cui the Donald riferisce al Presidente ucraino che Biden (Joe) continua a vantarsi di aver bloccato, quando era vicepresidente, il locale procuratore che stava indagando sul figlio: e gli chiede di approfondire una vicenda che dice di trovare orribile.

Forse, dopotutto, non erano ingiustificati i timori atavici della stessa Pelosi che, durante la farsa del Russiagate, si era sempre opposta all’impeachment, considerandolo pericoloso e controproducente. In effetti, nella storia americana a questo istituto giuridico si è fatto ricorso col contagocce. In tutto sono stati solamente due i casi che hanno riguardato un Presidente degli Stati Uniti: Andrew Johnson nel 1868, e Bill Clinton nel 1998 (mentre Richard Nixon, nel 1973, si dimise prima dell’avvio formale della procedura). Nessuno dei due venne destituito e, salvo enormi sorprese, non lo sarà neppure Trump.

Di fatto, la Camera (controllata dal Partito Democratico) potrebbe forse approvare l’incriminazione del tycoon – per cui comunque è necessaria la maggioranza assoluta: ma a quel punto entrerebbe in gioco il Senato, dove prevalgono i Repubblicani e dove, comunque, per far decadere il Presidente servirebbe il voto favorevole dei due terzi dell’Aula.

Freddo regolamento a parte, resta una considerazione di fondo: il fatto che i Democratici siano così ossessionati dalla sconfitta da non riuscire a venirvi a patti. La propria protervia è tale da non considerare neppure l’idea che gli elettori possano averli puniti per l’inefficacia delle loro politiche, o perché il messia Obama è stato semplicemente il peggior Presidente di tutti i tempi. Una visione coi paraocchi da cui discende la necessità di un “intervento esterno” che giustifichi la débâcle elettorale – anche se solido come rugiada al mattino.

E, dunque, nessuna autocritica, nessun cambio di rotta. Basta trovare un capro espiatorio, magari che si esprima in cirillico, e il gioco è fatto. Ma è un gioco sottile e, per i dem, assai rischioso. Perché alla fine della fiera saranno i cittadini a decidere. E, se l’alternativa è il nulla cosmico, la rielezione di Trump si fa sempre più vicina.

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Mirko Ciminiello

È nato a Rimini nel 1985 e vive a Roma, dove si è laureato in Chimica (triennale) e Chimica Organica e Biomolecolare (specialistica) a "La Sapienza", in Scienze della Comunicazione (triennale) e Scienze Cognitive della Comunicazione e dell'Azione (magistrale) a "Roma Tre". Giornalista, attore per hobby, collabora con l'associazione "Pro Vita e Famiglia" ed è autore di 9 libri, di cui due in inglese.

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