La premessa è ovvia. O dovrebbe esserlo. Le colpe dei padri non ricadono sui figli. Se un genitore compie delle scorrettezze, o persino dei reati, la responsabilità è e rimane esclusivamente sua. A meno che, si intende, non sia possibile dimostrare – o se non altro sospettare con qualche buon indizio a puntellare la congettura – che i figli chiamati in causa fossero informati di quegli atti. Divenendo perciò, se non proprio conniventi, quantomeno omertosi.
Detto questo, però, non tutti i casi sono uguali. E quindi, per entrare nello specifico, è sbagliato assimilare senza ulteriori distinguo il caso di Luigi Di Maio a quello di Matteo Renzi, o di Maria Elena Boschi.
Dove sta la differenza?
Sta nella natura delle violazioni commesse, o ipotizzate. Un conto è che si tratti di qualcosa che non ha e non può avere nulla a che fare con l’attività politica dei figli, come i pagamenti ‘in nero’ di un minuscolo imprenditore edile come Antonio Di Maio. Altro (ben altro) è che le accuse si vadano ad appuntare su operazioni di cospicuo valore economico che rimandano a quei grovigli di corruzione e compiacenza che sono tipici della politica italiana. Come il ‘traffico di influenze illecite' per Tiziano Renzi. Come gli abusi bancari per Pierluigi Boschi.
Certo: la cautela dovrebbe essere d’obbligo sempre e comunque. Ma per accadimenti come quello di Antonio Di Maio non si tratta solo di evitare conclusioni affrettate e, nell’attesa di ulteriori sviluppi, di non confondere la posizione dei padri con quella dei figli.
Si tratta di astenersi proprio dal fare l’accostamento, per il semplicissimo motivo che è del tutto infondato.
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