Cronaca

Inps: Stop agli assegni per gli invalidi che lavorano

L’Inps, con un messaggio risalente al 14 ottobre 2021 del direttore generale Gabriella De Michele, dice stop agli assegni per gli invalidi che hanno un “lavoretto”.

Una decisione molto grave che colpisce i più fragili che hanno già pagato un prezzo alto in pandemia” affermano Ezio Cigna e Nina Daita, responsabili della Cgil per le politiche della previdenza e della disabilità.

È necessario dire che “i cosiddetti lavoretti non sono altro che attività terapeutiche o formative e con piccoli compensi”. Infatti, i lavori di cui parla l’Inps nel suo messaggio sono quelli che non devono superare una paga massima di 400 euro al mese, dal momento che, per percepire l’assegno di invalidità, non bisogna superare il reddito annuale di 4.931 euro.

Dunque questa categoria, già in difficoltà, dopo questa decisione sarà costretta a restare a casa, senza lavoro e con pochi soldi, poiché se vuole lavorare deve rinunciare al legittimo assegno di invalidità della cifra di 287,09 euro al mese previsto per 13 mesi.

Per la maggior parte delle persone, il lavoro è ciò che permette e garantisce un’integrazione sociale. Con lo stop, però, si crea un cortocircuito che rischia di escludere migliaia di persone affette da disabilità non grave (dal 74% al 99%).

Si tratta di una situazione inaccettabile per più di una ragione” afferma la sottosegretaria all’Economia Maria Cecilia Guerra (Leu). Infatti, “la grave invalidità di cui si parla non può comportare il confinamento nella solitudine della inattività; e nemmeno la condanna a una povertà, solo in parte alleviata dall’indennità che si riceve. Per non parlare della rinuncia ad ogni tipo di indipendenza economica. Occorre intervenire immediatamente per correggere l’equivoco creato dalla norma del 1971 e ripristinare la compatibilità sino ad ora ammessa. Mi adopererò in tutte le sedi possibili perché questo avvenga al più presto

La situazione per gli invalidi in Italia

Il messaggio che ha mandato l’Inps in cui si afferma che “l’assegno mensile di assistenza di cui all’articolo 13 della legge n. 118/1971, sarà pertanto liquidato, fermi restando tutti i requisiti previsti dalla legge, solo nel caso in cui risulti l’inattività lavorativa del soggetto beneficiario“, ha generato molte discussioni.

Gli articoli citati al suo interno si riferiscono a due sentenze della Cassazione: la numero 17388 del 2018 e la numero 18926 del 2019 in cui si sanciste che “Il mancato svolgimento di attività lavorativa è un elemento costitutivo del diritto alla prestazione assistenziale”. Dunque, risulta scontato che entrambi le sentenze vanno a favore dell’Inps e quindi inevitabilmente a sfavore delle sentenze di appello richieste da invalidi che erano stati privati dell’assegno.

Già dal 1971 la legge 118 – sancita con l’intento di avviare un percorso d’inclusione sociale degli invalidi in Italia – nel suo articolo 13 stabiliva che l’assegno di invalidità era dovuto solo in caso di “incollocazione” del beneficiario, ossia l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento, “per il tempo in cui tale condizione sussiste“. Successivamente con la legge del 2007 si sostituirà il requisito dell’incollocazione con quello di “inoccupazione“.

Nel 2008 però la stessa Inps – in due messaggi del 2008, numero 3043 e numero 5783 – aveva affermato che “l’esiguità del reddito impedisce di ritenere che vi sia attività lavorativa rilevante“. Dunque, se il lavoro non era stabile e non veniva superata la soglia di reddito minimo personale, l’invalido avrebbe potuto continuare a lavorare mantenendo il proprio assegno di disabilità.

Detto ciò, risulta chiaro che le regole definite dalla stessa Inps nel 2008, con il messaggio numero 3495 del 14 ottobre, siano state annullate. Una retromarcia che però non sembra aver considerato bene le conseguenze.

Redazione

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