Religione

Santisssimo corpo e sangue di Cristo: Gesù si dona

Gesù si dona

Siamo al momento culminante del ministero di Gesù: egli si dona e un discepolo lo tradisce. Anche il vangelo di Marco (14, 12-16.22-26) conclude la vicenda umana di Gesù con il racconto della sua passione e morte. Le scene precedenti del vangelo ci avevano preparati: ora siamo portati davanti a questa morte di Gesù che non finisce di sorprenderci. Da una parte, notiamo Gesù che si espone coscientemente e liberamente alla morte; dall’altra, lo vediamo vittima della cattiveria degli avversari, della leggerezza delle folle e dell’incomprensione dei discepoli. In che senso la morte di Gesù in croce e il suo dono di vita sono salvezza per noi oggi?

I preparativi per la cena pasquale

L’evangelista Marco sottolinea l’iniziativa di Gesù: è lui che con sovrana libertà invia i suoi discepoli a preparare la nuova Pasqua, per la quale lui stesso sarà l’agnello. Siamo infatti nel “primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua” (v. 12),il 14 di Nissan quando al pomeriggio gli agnelli venivano immolati nel Tempio. I discepoli andarono e, entrati, “trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua” (v. 16). Gesù, che nelle sere precedenti è uscito dalla città insieme ai Dodici, ora vi fa ritorno per consumare la cena pasquale: “Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici” (v. 17).

Gesti profetici e parole esplicative di Gesù

Il personaggio principale è Gesù, che agisce compiendo gesti profetici e dicendo parole nuove. In maniera sintetica l’evangelista riporta gesti e parole di Gesù sul pane e sul vino durante la cena pasquale. La condivisione del pane è espressa mediante quattro verbi consecutivi: prendere, dire la benedizione, spezzare, distribuire; seguono poi quelli sul vino. All’azione sul pane fa seguito la parola di Gesù, che conferisce valore nuovo a questo elemento: “Questo è il mio corpo” (v. 22). L’azione sul calice contenente il vino è espressa attraverso tre verbi: prendere, rendere grazie, dare, a cui fa seguito la costatazione “e ne bevvero tutti” (v. 23). Soltanto dopo aver bevuto Gesù dice la parola di interpretazione: “Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti” (v. 23).

La specificazione “versato per molti” è un “semitismo” con valore inclusivo ed equivale “per tutti”. L’intervento in cui è espresso il significato del calice è più lungo di quello in relazione al pane. La parola sul calice è ulteriormente ampliata da una sentenza sulla commensalità definitiva di Gesù con i discepoli nel Regno del Padre. I vangeli “sinottici” (Matteo, Marco e Luca) sono concordi nell’affermare che l’Ultima Cena di Gesù è stata una cena pasquale. Alla base del racconto sulla istituzione dell’eucaristia vi è il ricordo dell’azione storica di Gesù durante la cena pasquale la sera prima di morire. L’affermazione “questo è il mio corpo” non va intesa in maniera statica, come se Gesù ponesse la sua attenzione solo sulla sua “presenza reale”, sulla trasformazione del pane nel corpo del Signore, perché la visione del testo è “dinamica”: la sua presenza vuole essere ed è “tesa” a un incontro con una persona, un dono offerto, come conferma anche il gesto della frazione del pane.

Identificando il proprio corpo con il pane e il proprio sangue con il vino, Gesù profetizza la sua morte imminente, e interpreta il dono della propria vita nel contesto del sacrificio di Pasqua per la salvezza di tutti. In ebraico “carne e sangue” designano la persona nella sua interezza, non rappresentano una parte, bensì la persona intera e la sua vita. Gesù, usando queste parole, parla di sé come vittima sacrificale. Non bisognerebbe dimenticare, infine, come al centro della narrazione di Marco il racconto della istituzione dell’Eucaristia sia inquadrato da due annunci: quello del tradimento di Giuda e dell’abbandono di tutti con il rinnegamento di Pietro: appello potente di Gesù a una relazione di sequela e a un’umile fedeltà quotidiana.

Il gesto di Gesù nell’Ultima Cena

Il gesto che Gesù compie nell’Ultima Cena poteva essere solo un gesto di comunione, di fraternità, di amicizia. Quella sera Gesù sente avvicinarsi la sua morte e allora vuole che i suoi comprendano ciò che sta per accadere: quel pane spezzato è il suo corpo, offerto per la nostra salvezza. Un corpo che sta per essere dilaniato, lacerato, colpito, denudato, inchiodato. Quel vino, nella coppa, è il suo sangue, che sta per essere versato. Sangue di una nuova alleanza che nessuna cattiveria potrà mai mettere in pericolo.

Non un gesto estemporaneo, retorico, ma il culmine naturale di tutta una vita spezzata per gli altri, donata ai poveri, consacrata al regno di Dio. Di domenica in domenica noi siamo invitati a ripetere quel gesto, per avere comunione con lui, Gesù di Nazaret. Conosciamo bene le obiezioni di sempre: la messa è sempre quella, lo schema non cambia mai, il rito rimane identico. Tuttavia, bisogna anche riconoscere che il rito è sempre diverso, “nuovo” per coloro che amano il Signore. Ciò che appare scontato, ripetitivo, si colora ogni volta di una profondità e di un significato nuovo. Come il “ti amo” pronunciato da due persone legate dall’amore umano, senza chiedersi mai se quelle due parole sono nuove oppure logore, a furia di essere ripetute. Per chi le dice in effetti sono del tutto originali, come è originale ogni affetto che sboccia, come è inedita ogni espressione di amore.

Anche se molte delle parole pronunciate si possono perdere, anche se le belle idee di una predica possono svaporare nella memoria, i gesti rimangono: gesti di un pane spezzato, offerto, ricevuto e mangiato. Gesti di amore e di sacrificio, di comunione e di condivisione. Gesti che convertono e fanno crescere.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Mazzeo, 2021; Laurita, 2021.

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