14 Settembre, ecco la scuola per riavviare il Paese dopo il Covid di F.Febbraro

14 settembre, ritorno a scuola. Non difendo il metodo brutalmente selettivo di una volta, ma l’alternativa non può essere quella del volemose bene

14 settembre, ritorno a scuola

14 settembre, ritorno a scuola

14 Settembre, riorganizzare la scuola non solo per l’emergenza.

Le scuole, chiuse per la Pandemia, riapriranno solo a settembre. Se il Virus tornerà, dovremo ridefinire gli spazi dei luoghi d’insegnamento e sperimentare nuovi metodi didattici. Stavolta sarà meglio non farci trovare impreparati. In questi mesi abbiamo scoperto di avere a disposizione un immenso patrimonio di lezioni on-line, divertenti, stimolanti e di altissimo livello, messe a disposizione da RAI Scuola e un ventaglio enorme, di esperienze e conoscenze, offerte dai siti web delle Università e dei Centri di ricerca. Conoscenze che possono essere trasmesse ai nostri ragazzi in modo decisamente proficuo. Si tratta di strumenti che fino a ieri erano quasi inutilizzati, ma che potrebbero divenire usuali in futuro come integrazione alla formazione tradizionale data dagli insegnanti in classe, oppure on-line, come abbiamo ultimamente sperimentato.

14 Settembre: a scuola la formazione in aula è insostituibile

Credo poco nella formazione a distanza. La ritengo uno strumento da utilizzare solo in situazioni eccezionali, come quella creata dal Covid-19; non tanto per la qualità dell’insegnamento, quanto perché ritengo che il contatto diretto con l’insegnante e lo scambio di esperienze con i compagni di corso, siano insostituibili. Studiare isolati, spremendosi le meningi sui libri, magari facendosi legare alla sedia, come fece Vittorio Alfieri, educa alla disciplina ed alla concentrazione. Ma si impara meglio e di più col lavoro di gruppo in classe, che oltre alla socializzazione, consente il continuo scambio di esperienze tra gli studenti. Al liceo facevo fatica, come molti, a comprendere l’analisi matematica. Ma le mie difficoltà svanirono per incanto il giorno che un mio compagno di classe, che la materia l’aveva capita benissimo, mi diede la “sua” spiegazione, rendendo facile ciò che, fino a quel momento, mi era sembrato incomprensibile.

Guardare al futuro puntando sulla scuola

Qualunque sia il tipo di organizzazione che verrà data alle lezioni, mi auguro che anche questa possa essere l’occasione per rendere la nostra scuola più aderente alle sfide che ci attendono. Per competere sulla scena internazionale abbiamo bisogno di un’industria forte, basata sulle tecnologie innovative. Meglio ancora se saranno “ecocompatibili”, perché su questo campo si gioca ormai la partita della sopravvivenza della nostra specie sul Pianeta. La tecnologia è figlia della ricerca scientifica, che a sua volta è figlia della scuola. Non a caso la Corea del Sud è, tra le nazioni del mondo, quella che investe di più sulla scuola.

La perdita del primato della scuola

La scuola italiana era uno dei nostri punti di forza nel dopoguerra. Oggi, secondo la classifica dall’OCSE, siamo solo al 36° posto nel mondo, su 57 paesi, per la qualità delle istituzioni scolastiche e la preparazione dei giovani. Una posizione peggiore di molti paesi del cosiddetto “secondo mondo”, che infatti ci stanno superando in diversi campi. Molti di noi hanno potuto constatare personalmente lo stato di inadeguatezza, talvolta addirittura di degrado, della Scuola e dell’Università. Come ci siamo ridotti così?

Tutta colpa del sessantotto?

L’argomento è oggetto di un dibattito pluridecennale, ma nessuna delle tante riforme di questi anni è riuscita a migliorare la situazione. Qualcuno sostiene strumentalmente che la colpa sia delle lotte studentesche degli anni ’70, che affossarono il buon modello di scuola ereditata dal fascismo. La tesi è accattivante, ma infondata. Il movimento studentesco smantellò un sistema scolastico nozionistico, insensibile ai cambiamenti sociali, che discriminava in modo brutale chi non apparteneva alle classi dominanti. Combattere quel modello di scuola era un obbligo morale prima ancora che politico. Il racconto di quegli anni concitati e confusi si incentra spesso sugli aspetti folcloristici degli esami di gruppo e del sei politico

Una storia raccontata male

Ma quelli erano solo gli epifenomeni di una rivolta che aveva come obiettivo quello di liberare le energie e le competenze che venivano disperse da un metodo di selezione ingiusto. Infatti, molti di quegli studenti, che la selezione classista avrebbe ostacolato, ebbero modo, grazie a quella rivolta, di accedere all’Università, raggiungendo poi livelli di eccellenza assoluta. Quindi, fare risalire la colpa al ’68, peraltro dopo più di cinquant’anni, è sbagliato. Ma è indiscutibile che il modello scolastico combattuto dalla rivolta studentesca non venne sostituito da un’alternativa altrettanto valida. La demolizione fu così repentina da trovare impreparati alla gestione del cambiamento persino coloro, studenti e Partiti, che lo avevano voluto. Invece l’establishment, che allora si chiamava “nemico di classe”, aveva le idee chiare su come impedire che la rivoluzione studentesca annullasse i privilegi e sostituisse la sua leadership.

Demolizione senza ricostruzione alternativa

La vecchia scuola, basata sul quadrinomio censo, gerarchia, nozionismo e sacrificio, rispondeva tuttavia all’obbiettivo di formare e perpetuare una classe dirigente oligarchica, occasionalmente disponibile a cooptare, con paternalistica benevolenza, qualche giovane talentuoso delle classi subalterne. Uno su mille ce la faceva, ma i più si arrendevano a quel sistema, che procedeva come un carrarmato. I sopravvissuti a quella selezione erano stremati e traumatizzati, ma temprati per affrontare le sfide della vita e della professione. La nuova scuola non riuscì a costruire un modello alternativo altrettanto solido. Il suo continuo processo di revisione, che non è mai stato di vera rigenerazione, ci ha consegnato la scuola che conosciamo da anni: povera, disorganizzata e inadeguata a far competere i nostri giovani sullo scenario mondiale. Basti pensare che ancora oggi ci meravigliamo quando un Ministro della Repubblica parla correttamente due lingue, di cui una è quella italiana.

La sconfitta della rinuncia al merito

Selezione e meritocrazia furono parole cancellate dal vocabolario sessantottino. Partendo dall’assunto che chi corre scalzo non può competere con chi corre con le scarpette chiodate, si arrivò alla conclusione che si dovesse correre tutti scalzi per non lasciare nessuno indietro. Principio concettualmente attraente, ma il livellamento in basso danneggiò e danneggia, ancora una volta, i meno fortunati, che non avevano una famiglia alle spalle e che non potevano permettersi una buona scuola privata.

No pain, no gain: scuola facile, risultati scadenti

Selezione e merito sono i legittimi presupposti di una scuola che voglia preparare i giovani al futuro. La scuola italiana, non avendo alcun ragionevole criterio selettivo, non premia il merito e non stimola l’impegno a migliorarsi. Di conseguenza i nostri ragazzi, non affrontando le difficoltà della scuola, sono impreparati anche alle difficoltà della vita. I genitori, chi per troppo amore per i figli, chi per troppo amore verso sé stesso, incapaci di dire dei “no” il più delle volte li viziano, peggiorando la situazione. Si accontentano di vederli prendere quel “pezzo di carta” che, sul piano squisitamente teorico, attesta la conclusione del loro percorso formativo. Ma di che formazione si tratta se non prepara né alla vita né al lavoro? Alla fine, tanto i giovani, quanto le famiglie, sono legittimati a non credere più che la scuola sia uno strumento di elevazione e di riscatto sociale.

I diritti spettano a tutti, il successo spetta solo a chi lo merita

Non difendo certo il metodo brutalmente selettivo della scuola di una volta, che ho combattuto con forza, ma credo che l’alternativa non possa essere quella del “volemose bene” che ha caratterizzato la scuola di questi anni. Il diritto allo studio non va confuso con il diritto al diploma, che prescinde dalla effettiva conoscenza delle materie. Altrettanto inaccettabili sono quegli inutili “Laureifici” che sono diventati le nostre Università, improntate ormai al modello aziendalistico, dove il numero degli iscritti conta più della qualità dei laureati. L’accesso generalizzato ed a basso costo agli studi universitari ha senso solo se il successo finale è garantito solo a coloro che lo meritano davvero.

La selezione che non fa la scuola la fa il mondo del lavoro

In Italia il lavoro scarseggia, ma i giovani più preparati e capaci, forse anche perché sono una minoranza, trovano sempre lavoro e se non lo trovano in Italia lo trovano sicuramente all’estero, dove i nostri cervelli migliori hanno spesso successo. Questo dimostra che la selezione meritocratica, che per un fraintendimento egalitario non vogliamo applicare nella scuola, viene automaticamente applicato dal mondo del lavoro. Ma allora, perché perseverare nell’errore di far credere ai giovani di avere un diritto che il mondo del lavoro non gli riconoscerà?

Il rispetto degli insegnanti, fondamento da riconquistare

Il rispetto verso gli insegnanti è per alcuni versi addirittura più importante del riconoscimento retributivo al quale gli insegnanti giustamente aspirano. Naturalmente sull’altro piatto della bilancia va messa la qualità dei docenti e gli strumenti dei quali dispongono per migliorare e implementare il loro metodo di insegnamento. I punti critici del nostro sistema scolastico sono gli stessi da decenni: qualificazione degli insegnanti, tipologia e strumenti di formazione, rapporto tra scuola e mondo del lavoro. Punti che, quantomeno per la necessità di “ripartire” col piede giusto, dovrebbero essere attentamente vagliati dai nostri governanti. Dobbiamo augurarci che il Governo sappia cogliere questa occasione per correggere in modo definitivo la rotta, avendo ben chiaro che puntare su una scuola di qualità che premi il merito e investire sulla qualificazione e aggiornamento degli insegnanti, significa investire sulla possibilità di formare al meglio la futura classe dirigente del Paese.

Imitare il Costarica

Non dobbiamo inventare l’ombrello, ma semmai studiare e migliorare, se possibile, gli ombrelli esistenti. Potremmo magari prendere l’esempio dal Costarica, piccola ma felice nazione centroamericana, che è un perfetto miscuglio tra la rigorosa capacità organizzativa della Svizzera e l’allegra e spensierata inventiva del nostro Meridione, al quale lo accomuna il felice clima. Il Costarica ha addirittura deciso da anni di non avere più un esercito, spostando i fondi della Difesa sulla scuola, perché, come disse uno dei loro leader: “con un esercito di bravi insegnati si può vincere qualunque guerra”.

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