Categorie: Interviste

Il neuropsichiatra ex ministro per la famiglia: “Rivendico il valore del rito”

Da neuropsichiatra, e non solo io, ma un'intera comunità scientifica, noto che sono in aumento le patologie psichiatriche e i disturbi ossessivi compulsivi che si manifestano spesso con l'autolesionismo: l'anoressia, la bulimia, le dipendenze come l'alcolismo e l'abuso di sostanze, la tricotillomania cioè la pratica di stapparsi intere ciocche di capelli. Ma anche malattie gastrointestinali di origine psicosomatica.

I nodi che mi sembrano cruciali della nostra epoca sono due: il tempo e il rito, che non a caso sono profondamente intrecciati. Per “rito” non intendo solo quelli strettamente religiosi o propriamente collettivi, intendo anche sorseggiare il caffè leggendo un giornale. Il rito è il tempo in cui possiamo meditare sulle nostre azioni, sulle nostre emozioni, su cosa stiamo facendo e dove stiamo andando. Per i ragazzi e bambini il rito è qualcosa che rassicura, che manda loro il più prezioso dei messaggi: “qualsiasi cosa accada a scuola, con gli amici, io ci sono”. Il rito non deve farci pensare a una pratica superata, ma a qualcosa di arcaico che con tutta la sua forza sopravvive in noi.

Cerchiamo spesso la sorpresa, l'adrenalina della novità, ma non è una vera ricerca, credo sia più una sorta di ansia. Ci sono azioni per così dire stereotipate che non devono essere pensate come banalmente ripetitive ma profondamente presenti, senza fughe nel futuro. Noi tendiamo a desiderare cambiamenti continui per un certo timore del tempo.

Il rito non è la noia dell'abitudine, ma la forza della rassicurazione, e quest'ultima non è qualcosa di noioso o “da deboli”, ma qualcosa di cui la psiche umana ha bisogno. La rassicurazione gestuale è un elemento fondamentale della specie umana, atavica e mai sopita in noi. L'entusiasmo calcistico o adesso la febbre pro o contro Sanremo è una forma rituale sociale, pensiamoci. L'attesa è un rito, l'attesa è un rito anche quando divide l'opinione pubblica, e questo gli antichi romani lo avevano ben chiaro. Mi viene in mente Catullo che diceva “Sto sotto una pianta e piove sapore”…

Io credo che non serva aumentare esponenzialmente i bisogni dei nostri figli, siamo infatti in realtà noi genitori e adulti a farlo, a offrire loro cose che forse neppure chiederebbero, per sedare qualcosa che non riusciamo a dargli noi “grandi”. Occorre piuttosto offrire un tempo di qualità, un tempo in cui siamo davvero con loro. Lo dico da padre, nonno, neuropsichiatra ed ex ministro per la famiglia.

A proposito di riti: al ragù occorrono molte ore per riuscire saporito e agli esseri umani occorre un tempo vissuto pienamente con le persone che si amano per sentirsi sereni e determinanti in questo momento di estrema insicurezza sociale etica e ideologica. Rivendico così il diritto al rito.

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Redazione

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