Roma, lo scontrino shock e il conto da 430 euro. Cosa non va nell’accoglienza

Le due turiste giapponesi, vittima di un malcostume da estirpare, non foss’altro perché nuoce al turismo

Ci sono piatti che restano sullo stomaco per motivi che pertengono esclusivamente all’arte culinaria. E poi ci sono pietanze che risultano indigeste – molto più indigeste – per ragioni completamente diverse. Tipo i due piatti di pasta al pesce, con tanto di bottiglia d’acqua, costati a due ignare turiste giapponesi in visita a Roma la bellezza di 429,80 euro – comprensivi di 80 euro di mancia.

Il locale incriminato è l’Antico Caffè di Marte, situato in pieno centro storico, il cui ristoratore, Giacomo Jin, ha provato a difendersi dicendo che il menù era chiaro («massimo 16 euro per uno spaghetto allo scoglio»), che il pesce è fresco e viene scelto direttamente dai clienti, e che la mancia non è obbligatoria.

Ora, si potrebbe facilmente replicare che, se la portata in questione costa al massimo 16 euro, a maggior ragione non si capisce da dove possa uscire quella cifra follemente astronomica; che il pesce potrà essere fresco quanto si vuole ma, a meno che non sia fatto di diamante e/o gli spaghetti non siano in realtà fili d’oro, torniamo alle conclusioni di cui sopra; e che, se la mancia è facoltativa, non c’è nessuna ragione di includerla nello scontrino fiscale.

Ma il punto vero è un altro, ed è quel malcostume che porta alcuni negozianti a lucrare sulla poca dimestichezza di determinati clienti con la lingua o gli usi e i costumi del Paese in cui si trovano a soggiornare: infischiandosene del danno d’immagine che provocano non solo al loro esercizio (chi fosse causa del suo mal piangerebbe se stesso), ma alla città e addirittura al Paese intero.

E si badi che queste pessime abitudini si sono viste a tutte le latitudini italiche, da Venezia a Ischia, da Torino a Capri. Il che non è certo un buon motivo per emularle, anzi semmai dovrebbe essere uno sprone a sradicarle. Non solo sanzionando pesantemente i furbastri come quello del ristorante capitolino, ma anche sospendendo o perfino ritirando loro la licenza, come invocato rispettivamente da Conferesercenti e dal Codacons.

Perché quando le due turiste nipponiche, come tutti gli altri vacanzieri truffati, saranno tornate sul suolo natio, come potranno consigliare ai loro familiari, agli amici di andare a vedere la città più bella del mondo, dopo aver subito un simile salasso? Come potranno, quando i mezzi pubblici della Capitale sono un disastro, e l’alternativa sono ore di traffico lungo strade costellate di buche?

La Città Eterna ha già abbastanza difficoltà. Non le serve il venenum in cauda, soprattutto se servito al posto del proverbiale dulcis in fundo.

Naturalmente attendiamo di sapere esattamente come siano andate le cose, soprattutto per non coinvolgere in questa vicenda un'intera categoria e chi in passato era stato con clamore giudicato ingiustamente colpevole di truffa.

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