Suburra, la serie: fotorealismo e tinte foschissime di Mafia-Capitale

Suburra: protagonisti splendidamente nella parte, fotorealismo perfetto nel richiamare la cronaca romana degli ultimi anni

Suburra

Suburra, Le tinte foschissime di Mafia-Capitale

Suburra

Serie, Italia 2017-20, 3 stagioni di 10, 8 e 6 episodi, durata 40-62’. Ispirata al romanzo omonimo di G. De Cataldo e C. Bonini. Distribuzione: Netflix, Rai2.

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Suburra “la serie” viene da lontano: nel 2013 un romanzo, poi un film di Sollima, poi le tre (e non più di tre) stagioni della serie; l’ultima rilasciata il 30 ottobre scorso. Toccando una ferita non rimarginata nell’anima di chi vive nella città di Roma e la ama, quella dell’oscuro mondo neanche tanto sommerso di Mafia-capitale, “le mani sulla città” di più centri di potere che se ne sono contesi il controllo: le cosche criminali, la politica deviata, e – almeno nello script della serie – esponenti della Chiesa.

Le tinte forti: tutto in Suburra lo è

La genesi, rappresentata nella prima stagione dall’occasione di una speculazione edilizia (e non solo) su un vasto tratto del litorale di Ostia, ha poi registrato un cambio di direzione della cupidigia degli invitati al banchetto, ora rivolta ad accaparrarsi la gestione di un “Giubileo Straordinario” indetto dal Papa e degli affari dell’area Roma Nord.

Questo lo sfondo. In primo piano varie figure a tinte forti (tutto in Suburra lo è: dalla fotografia dalle sfumature dorate alle scene, dall’abbigliamento e dalle acconciature dei personaggi al linguaggio). Primeggiano fra tutti i due giovani scalatori della malavita locale Aureliano Adami (Alessandro Borghi) e il sinti “Spadino” Anacleti (Giacomo Ferrara), accomunati dall’insofferenza verso i rispettivi, oppressivi condizionamenti familiari, da cui sgomitano per smarcarsi; smania che in un delirio di onnipotenza li porterà infine a proclamarsii nuovi Re di Roma”.

Sono figure che vi resteranno impresse, ma non a senso unico bensì generandovi, nel dipanarsi della storia, reazioni contrastanti. E questo è uno dei perni dell’opera: mentre in un Gomorra, in un Gangs of London, risulta difficile scorgere spiragli di umanità, qui si abbandona il consolatorio cliché manicheo dei buoni e cattivi e si esplorano senza imbarazzo quegli spiragli di luce e, oseremmo dire, di sentimento inespresso, che si annidano anche nelle pieghe delle anime più perse.

I due protagonisti splendidamente in parte

I due protagonisti sono splendidamente in parte (Borghi più che in altre sue prove), sembrano nati lì, tanto è vero che sono stati curiosamente trapiantati nello stesso ruolo da loro ricoperto nel film di Sollima; affiancati da un cast impeccabile, che sorretto da una buona sceneggiatura e soprattutto da dialoghi sempre credibili rende autentici i personaggi: non possiamo non nominare Adamo Dionisi, che dà anche somaticamente a Manfredi, capofamiglia e fratello maggiore di Spadino (con cui ingaggerà un epico scontro senza esclusione di colpi), un’asprezza e una tenacia corrosive; Francesco Acquaroli è un “Samurai” instancabile tessitore di trame, una lucida carogna, applicatore gelido di geometrie criminali.

Filippo Nigro conferisce al giovane politico rampante Cinaglia quel climax febbrile che ne divorerà anima e affetti. Ci ha colpiti poi la consumata, fatalistica naturalezza di Marzia Ubaldi, che fa Sibilla, una stanca e filosofica “ragioniera” delle pratiche di malaffare. Registriamo anche la presenza, adeguata ma senza slanci, di Claudia Gerini, il cui personaggio di affarista senza scrupoli è però mal sviluppato forse anche per ammissione degli stessi sceneggiatori, tanto che a un certo punto la fanno uscire di scena per una porta secondaria, senza un equilibrio drammaturgico.

Fotorealismo perfetto nel richiamare la cronaca romana degli ultimi anni

Facile scorgere, in filigrana, identificazioni con personaggi della cronaca delinquenziale romana e italiana: gli Anacleti, opulenti zingari sinti abruzzesi che parlano mezzo romanesco e mezzo “romanì” (scrupolosamente sottotitolato) sono i Casamonica, no? e chi vedendo Samurai all’opera non pensa al famigerato Carminati?

C’è intreccio, c’è suspense, c’è il fotorealismo del richiamo a cronaca e storia di questi anni, che ha un immancabile appeal. Ci sono, come dicevamo, quello scavo fra le pieghe delle coscienze, quelle tracce spiazzanti, che diverranno evidenza nel gran finale. In un mondo così, c’è posto per l’amicizia? E di che è fatta?

Allora niente difetti, uno potrebbe dire. Invece ce ne sono. Qualità tanta, ma nessuna alchimia che trasformi la materia in oro, che si elevi anche a tratti da un solido mestiere.

E la linearità narrativa è guastata, nell’ultima stagione, dalla profusione di personaggi messi in campo nelle prime due; e che diventa imbarazzante sistemare.

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