Come il seme per dare frutto deve morire, così anche l’uomo deve imparare ad amare fino alla fine

Bisogna che il “morire” sia obbedienza a un progetto più grande, finalizzato alla gloria di Dio

Il Capocordata in montagna

Il Capocordata

Il nostro brano (Gv. 12, 20-33) incomincia con la misteriosa comparsa di alcuni Greci durante la festa della Pasqua ebraica. La loro presenza è un segno e Gesù la interpreta come la venuta del momento più solenne, quello della sua Croce, perché è lì che si manifesterà in maniera più alta l’amore di Dio che in quella prossima Pasqua mostrerà di amare tanto il mondo da dare perfino il Figlio unigenito (cfr. Domenica scorsa).

Un amore radicato

Durante la festa c’erano anche alcuni Greci” (v. 20), i quali prendono contatto con Filippo, che essendo di Betsaida di Galilea era abituato a una società più ellenizzata, e costui chiama Andrea che va da Gesù (vv. 21-22). Questo indica una nuova fase nella vita della Chiesa che si apre così al mondo intero. Ma Gesù non parla con i Greci: questa dimensione più universale non verrà condotta da Gesù in prima persona.

Lui insegnerà ad andare oltre ogni confine ma lo farà mostrando di saper morire per la sua gente, quella con cui è sempre stato, quei Giudei che l’hanno sempre avversato ma dai quali Gesù non fugge. Si allontana in alcuni momenti di maggior tensione, ma solo per tornare da loro, come hanno sempre fatto i profeti che, nonostante il popolo d’Israele sia stato un popolo dalla dura cervice, non è mai stato sostituito dal Signore con altri popoli.

E’ stando con il popolo, che da sempre ha sposato, che il Signore mostra il suo grande amore per tutte le genti del mondo. In questa vicenda di amore si vede la gloria di Dio, che raggiunge tutti non disperdendosi in un annacquato messaggio universale, ma amando fino in fondo, fino a dare tutto. Ecco dunque l’immagine del chicco di grano, che dice l’andare in profondità dell’amare.

La morte, solo se porta alla vita

Certamente, la morte è condizione necessaria perché il chicco si trasformi. Ma lo stile del proprio sacrificio è fondamentale. Bisogna che il “morire” sia obbedienza a un progetto più grande, finalizzato alla gloria di Dio. Se osiamo perdere la vita (v. 25) è perché la amiamo. Gesù rinvia a una vita che non perisce, che certamente coinvolge una sfera “ultraterrena”, ma che è qualcosa che tocca la nostra vita attuale, che comincia già ora.

La volontà di Dio è quella di donare vita e una vita piena come ribadisce Gesù: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (cfr. 10, 10). Occorre vivere questa vita terrena con quel sano distacco senza il quale ci si attacca alla propria esistenza vivendola con disperazione, senza la consapevolezza che invece questa è un dono di Dio che presto o tardi finirà.

La dobbiamo “perdere”, perché la vita si perde comunque: ma a chi la dona senza paura, Dio la “conserva”. La vita futura è qualcosa di diverso da quello che abbiamo adesso. Sarà legata a questa vita, ma non sarà solamente un ritrovare la condizione attuale. Conserveremo qualcosa ma allo stesso tempo ci apriremo a una novità che non sappiamo neanche pensare. Quello che possiamo cogliere ora è la logica, già iscritta nella natura, che il senso della vita è dare la vita: il seme che non muore rimane solo e marcisce. Come il seme per dare frutto deve morire, così anche l’uomo deve imparare ad amare fino alla fine.

Donarsi senza paura

L’evangelista Giovanni non ci descrive l’agonia nel Getsemani come gli altri (Matteo, Marco e Luca): nel nostro brano troviamo un richiamo al dramma che Gesù vive nell’affrontare la morte, ma il testo vuole mostrarci che è possibile entrare in questa logica dell’amore senza paura. Gesù rinnova subito la sua volontà di amare fino in fondo, di vivere l’amore più grande, quello che dà la vita per i propri amici (Gv. 15, 13), perché questo era il senso della sua missione.

E Dio, con la voce dal cielo, conferma questa intenzione: “Venne allora una voce dal cielo: ‘L’ho glorificato e lo glorificherò ancora’” (v. 28).  La voce di Dio serve a noi (v. 30) per comprendere che se vogliamo glorificarlo, lo facciamo offrendo la nostra vita per amore, come Gesù ha fatto. Con il sacrificio di Gesù il giudizio è già stato realizzato: il principe di questo mondo è già stato giudicato (v. 31) e sconfitto con la croce di Gesù e noi viviamo liberi dal giudizio.

Non amiamo per conquistarci un posto in Paradiso o per presentare opere buone a Dio, ma semplicemente viviamo nella fede che ci ha salvato. Certamente, vivere così vuol dire seguire il Maestro che ci ha insegnato a dare tutto. La sua morte è il più grande insegnamento, perché è l’atto d’amore con il quale lui ha voluto raggiungere tutti perché non si perdessero (Gv. 6, 39). In questo senso, amare fino a donare la propria vita non è una cosa banale. Bisogna trovare il modo di spendersi che realizzi la volontà di Dio, che è un amore grande, che attira tutti gli uomini alla salvezza (v. 32).

Gesù, il Figlio, ha realizzato questo amore in maniera sublime sulla croce, insegnandoci che quella morte, da tutti disprezzata, era invece la gloria di Dio. A ciascuno di noi spetta seguirlo e cercare come, andando al di là delle nostre piccole esistenze, possiamo partecipare a questo grande amore che ancora oggi ci viene disvelato.

Non è facile, Signore, vivere l’esperienza del chicco di grano: scendere nell’oscurità di tante situazioni e raccogliere la sfida di amare, senza limiti, senza misura, rinunciando a sogni di gloria, paghi solo di compiere la propria parte, ogni giorno, con impegno, con determinazione, con coraggio. Eppure è questo che tu ci proponi, dopo averlo tu stesso sperimentato. Tu ci assicuri che resterai vicino in qualsiasi prova, anche quando emergeranno le nostre fragilità, i nostri dubbi, i nostri limiti.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Flori, 2024; Laurita, 2024.