Religione, La Santa Famiglia di Nazareth

di Il capocordata

Nella festa della Santa Famiglia di Nazareth ci viene proposto il racconto (Lc. 2, 22-40) della salita al tempio di Gerusalemme da parte di Giuseppe e Maria, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per il riscatto del bambino che, in quanto primogenito, appartiene a Dio e a lui deve essere offerto, e per la purificazione della madre dopo il parto, secondo i rituali della legge mosaica. Alla modesta famiglia di Nazaret è concessa la norma dei poveri, che esigeva solo il sacrificio di un paio di colombe, in sostituzione di quello più oneroso di un agnello. Tuttavia, l’intenzione di Luca è quella di privilegiare alcuni aspetti teologici rispetto all’esattezza giuridica sulla necessità o meno di un pellegrinaggio al tempio e sulla necessità della presenza del bambino riguardo la purificazione della puerpera. Del resto, in questo episodio l’evangelista non descrive i riti del riscatto del figlio e della purificazione della madre, ma concentra l’attenzione sullo straordinario mistero che si incarna nella persona di Gesù.

Dalla Legge a Cristo

All’inizio del passo l’insistenza di Luca sulla Legge, “secondo la legge di Mosè” e “come è scritto nella legge del Signore” (vv. 22.23), non mira a valorizzare la sua osservanza, ma piuttosto prepara la tappa successiva della storia della salvezza: il passaggio dalla Legge a Cristo. Per Luca l’adempimento della legge umana è il quadro nel quale deve collocarsi lo “straordinario”: dopo i tre riferimenti alla Legge, (la purificazione rituale, la presentazione del bambino al Signore, il sacrificio), risuona, pure per tre volte, la parola Spirito (vv. 26-27). Finisce il tempo della Legge, succede il tempo dello Spirito. Legge e Spirito in un certo senso si oppongono, ma d’altro canto si compenetrano, come l’antica alleanza, rappresentata da Simeone (v. 25), e la nuova rappresentata dal bambino Gesù.

A rivelare l’identità straordinaria di questo bambino sono due persone, gli anziani Simeone e Anna, che non hanno alcun ruolo particolare nella liturgia del tempio, riservata alla sola classe sacerdotale e levitica, ma svolgono l’azione importantissima di riconoscere in quel figlio presentato da Maria e Giuseppe, al di là delle apparenze, il Messia promesso e soprattutto le sue straordinarie prerogative. Il laico profeta Simeone incarna quel resto di Israele che finalmente riesce a vedere il compimento di una lunga attesa messianica, “i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli” (v. 30). E’ l’azione dello Spirito a offrire la garanzia che le promesse sono attuate.

Nel gesto con il quale egli prende il bambino tra le braccia si svela un profondo motivo cristologico: ciò che è “santo”, la presenza di Dio, è passato dall’edificio del tempio al corpo e alla persona di Gesù. L’azione fisica di Simeone di stringere a sé il bambino Gesù è un atto globale che coinvolge tutta la sua persona, il corpo, la vita interiore, i pensieri e i sentimenti.

La profetessa  Anna (v. 36), che Luca, sempre attento a estendere il vangelo di là del maschile, presenta in maniera piuttosto circostanziata, è un personaggio “tipo”, rappresentativo dei “poveri di Israele”. Rimasta vedova, ha vissuto a lungo nell’ambiente del santuario riservato alle donne ed è protesa verso il futuro, con il desiderio di vedere la salvezza riservata a Gerusalemme. Mentre Simeone ha il compito di riconoscere il Messia, Anna, come i pastori, ha la funzione di diffondere la buona notizia, “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (v. 38), prefigurando ciò che faranno altre donne dopo la visita al sepolcro, prime evangelizzatrici della risurrezione (Lc. 24, 1-12).

Nel bambino Gesù l’adempimento dell’attesa messianica

Al gesto di Simeone segue la parola, che è un rendimento di grazie perché il Signore gli ha concesso di “vedere” l’adempimento della salvezza attesa. Del bambino che stringe tra le braccia, Simeone riconosce la duplice qualifica: quella del suo nome umano, Gesù; e quella divina: “luce per illuminare le genti e gloria dl popolo Israele” (v. 32), “luce” e “gloria”, due titoli che le antiche Scritture riferivano direttamente al Signore Dio.

Il cammino della fede è anche sofferenza

Alla gioiosa profezia sulle prerogative divine del bambino segue una profezia dolorosa: mentre egli costituirà motivo di salvezza (risurrezione) per quanti lo accoglieranno, sarà invece per altri segno di contraddizione e occasione di “caduta”. Di fatto tutto il vangelo di Luca testimonia come di fronte a Gesù gli animi si divideranno e molti giungeranno a respingerlo. La parola di Gesù è come una spada, strumento divino che opera discernimento attraversando il cuore di una persona. Ecco quanto Simeone predice a Maria con discrezione e concretezza: anche sua madre, la figlia di Sion e prima credente nel vangelo di Gesù, sperimenterà nella famiglia e nella vita personale la sofferenza inclusa nel suo cammino di fede.

La scena del tempio è seguita dal ritorno a Nazareth (v. 39) e “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”(v. 40): l’evangelista prepara il lettore a ritrovarlo alle soglie dell’età adulta, seduto in mezzo ai maestri del tempio e pienamente consapevole che la sua missione è quella di occuparsi delle cose del Padre suo. Anche questa singolare vocazione del figlio richiederà per Maria e Giuseppe una profonda riflessione e un cammino di crescita nella fede.                                                                                      

Bibliografia consultata: Ferrari, 2017.    

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