Il tributo a Cesare: a ciascuno il suo

Dio esige una giustizia ancora più alta di quella domandata dallo Stato: non basta “pagare” quello che è dovuto, ma si tratta di dare anche del proprio

Il Capocordata in montagna

Il Capocordata

Il confronto tra Gesù e i rappresentanti del mondo giudaico sul problema del tributo da pagare o meno all’imperatore (Mt. 22, 15-21), di fatto si risolve in una dichiarazione di carattere religioso sull’unicità di Dio, che è garanzia di autentica libertà sul piano storico e politico.

Una classica controversia

L’episodio del “tributo a Cesare” (v. 17) è collocato dalla tradizione sinottica comune (Matteo, Marco e Luca) nell’ultima settimana dell’attività di Gesù a Gerusalemme. L’evangelista Matteo nel dibattito circa il tributo all’imperatore mette in primo piano il ruolo di farisei. Sono essi infatti che tengono consiglio per tendere un’insidia a Gesù e attirarlo sul terreno viscido dello scontro politico-religioso, insieme anche agli erodiani (vv. 15-16).

Questi ultimi, come sostenitori della politica della famiglia di Erode, hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti del potere romano di occupazione. Infatti i figli di Erode esercitano il potere in nome di Roma, ma nello stesso tempo rappresentano gli interessi della dinastia indigena. Lo stesso si può dire dei farisei. Essi hanno delle riserve sul piano teologico e religioso circa la legittimità della sottomissione alla sovranità di Roma, ma di fatto si adattano alla situazione di un paese militarmente occupato.

Il dibattito si svolge secondo gli schemi delle controversie con una serie di domande e contro-domande. Nella domanda posta dagli avversari, non vi è in gioco solo la lealtà o meno al regime romano, ma si tratta di definire la liceità del tributo nel contesto della legge ebraica. In altri termini la questione del tributo a Cesare ha nello stesso tempo un risvolto politico e religioso. Comunque risponda, Gesù si espone a una strumentalizzazione. Se dice: “Sì, è lecito”, dà manforte ai filoromani contro i nazionalisti; se dice: “Non è lecito”, si schiera con il movimento clandestino antiromano.

Gesù, dopo aver smascherato la subdola astuzia degli interroganti, chiede di vedere una moneta del tributo. “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?” (v. 20). Gli risposero: “Di Cesare” (v. 21). La sentenza conclusiva mette fine al dibattito e condensa l’intero messaggio del Vangelo riguardo a questo problema: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” (v. 21). La novità dell’intervento di Gesù consiste nello spostare la questione dal livello giuridico e morale, lecito o proibito, a quello religioso del rapporto con Dio, riconosciuto come unico Signore, senza concorrenti.

Una questione religiosa

Il “Cesare-Imperatore”, al quale Gesù riconosce il diritto del tributo, non è più l’Augustus che rivendica un dominio per motivi ideologici o religiosi, ma è semplicemente il responsabile dell’amministrazione della cosa pubblica. Gesù non discute sulla legittimità o meno del potere di occupazione romana in Palestina, ma con la rivendicazione del diritto sovrano di Dio pone anche il fondamento della libertà sul piano storico e politico.

La riduzione dell’autorità politica alla sua dimensione laica, è l’unica condizione non solo per fondare la libertà religiosa, ma anche quella politica, secondo le forme storiche decise dai gruppi umani e dalle entità nazionali e storiche.

Nel Vangelo di Matteo, “Cesare” e “Dio” non sono due ambiti o realtà equipollenti o simmetriche. Dio è l’unico che si deve adorare. I regni del mondo e la loro gloria sono attribuiti da Satana a coloro che lo adorano (Mt. 4, 8-10). Gesù ha respinto fin dall’inizio questa tentazione di un messianismo politico. Egli ha annunciato e reso presente con i suoi gesti di liberazione il regno di Dio smantellando il regno di Satana.

Dunque Dio e la sua regalità non entrano in concorrenza con il potere di Cesare, perché stanno a un altro livello. I discepoli di Gesù perciò sono invitati a fare la loro scelta, non possono servire due padroni (Mt. 6, 24). La fedeltà radicale a Dio come unico Signore li rende liberi nei confronti di Cesare.

L’evangelista Matteo propone per i suoi cristiani questo dibattito che affrontava un tema caldo tra i movimenti e gruppi integristi o collaborazionisti del tempo dell’occupazione romana in Palestina, perché è ancora vivo e dibattuto il problema del rapporto del movimento cristiano con la comunità ebraica che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 d.C., deve riconoscere con una tassa particolare la sua sudditanza all’Impero.

Assolvere i propri doveri nei confronti dello Stato non ci può far dimenticare i nostri doveri verso Dio. E onorare Dio vuol dire anche comportarsi da cittadini onesti. Fuori da qualsiasi equivoco: la disonestà di certi guadagni non viene coperta, agli occhi di Dio, da un’offerta fatta alla chiesa.

Dio esige una giustizia ancora più alta di quella domandata dallo Stato: non basta “pagare” quello che è dovuto, ma si tratta di dare anche del proprio, per vivere la fraternità e la solidarietà. Dalla parola di Gesù nasce l’esigenza di andare al di là del “dovuto” per donare anche ciò che legittimamente ci appartiene.

Il Signore non si accontenta di aver portato alla luce un aspetto inconfessabile della realtà. No, Egli va oltre: se Cesare ha dei diritti, Dio ne ha molti di più, dal momento che noi viviamo dei suoi doni. I cristiani autentici sono anche cittadini leali e onesti. Nessuno però tenti di ignorare tutto quello che ci viene da Dio: il rapporto con lui non può ridursi a qualche prestazione cultuale, ma investe tutta l’esistenza.

Il capocordata.

Bibliografia consultata: SdP, 2023; Laurita, 2023.