La dominanza e il rango, due concetti che non sempre vanno d’accordo

Cerchiamo di chiarire un concetto che sempre più spesso genera confusione degli adopters dei cani, soprattutto di quelli aggressivi

Una frase ricorrente che si sente nei parchi, nelle strade e in qualsiasi posto dove si possono incontrare degli adopters con i cani è la seguente “fa così perché è dominante, lui li deve subito sottomettere”, e quasi sempre si percepisce una certa soddisfazione in questo.

Ma dominanza e rango sono la stessa cosa, vanno sempre di pari passo? Come primo punto è necessario dire che la dominanza è il prodotto di una combinazione genetica che favorisce la spinta a dei comportamenti piuttosto che altri, è quello che in umano siamo abituati a chiamarlo “CARISMA”. Il carisma è quella particolare struttura che rende il soggetto che l’esercita/possiede particolarmente credibile agli occhi degli altri, ha quel qualcosa in più non percepibile ne spiegabile che lo rende assertivo ed empatico in modo esclusivo. La sua credibilità non è determinata dalla violenza ma dalla forza, dalla tolleranza, dalla pazienza e dalla comprensione che in un insieme impalpabile vengono riunite formando il CARISMA.

Sicuramente in natura esiste una diretta relazione tra dominanza e rango, questo se la lettura avviene all’interno della singola specie dove la parte genetica trova conferme lineari e non contrastanti nel suo sviluppo ontogenetico. Un soggetto che geneticamente si sente predisposto al comando e alla guida non lo pretende, non obbliga gli altri a credergli, ma presentandosi al branco valuterà le risposte che le sue azioni ricevono, comprenderà quali potrebbero essere le sue potenzialità, sperimenterà in modo graduale l’impegno della responsabilità che certi ranghi hanno. Non sarà lui a proporsi agli altri ma saranno questi che cercheranno di capire i sui posizionamenti convinti che siano quelli più idonei per l’insieme del branco. Non dovrà dimostrare di essere un violento per evitare le sfide, semplicemente saprà valutare l’opportunità di accettarla o di mediare per poter evitare lo contro nel principio di armonia del branco che passa attraverso l’idea di mediazione e non di conflitto.

Alla fine del percorso evolutivo, che passa dall’infanzia all’adolescenza e alla maturità sociale, il soggetto non reclama ma si propone per il ruolo di comando che inevitabilmente significa il rango più alto. È proprio questo progressivo raggiungimento delle convinzioni di possibilità che, essendo vissuto da tutto il branco, permette di arrivare agli scontri per la definizione del rango in modo poco cruento ma molto ritualizzato. Risultano quasi essere più un obbligo istituzionale che una convinzione tra i due contendenti, essendo l’ultima prova da mettere in campo per il passaggio delle consegne, delle responsabilità nessuno ha interesse a farsi veramente male in quanto i giochi sono stati praticamente gia fatti, le decisioni prese. In questa situazione ecco che la genetica e l’ontogentica trovano una continuità evolutiva e non entrano in contrasto ma partecipano all’equilibrio dei soggetti del branco.

Ognuno si adatta a quello che è e non pretende di essere altro perché le risposte del branco lo posizionano nel posto giusto. Diverso avviene nelle relazioni all’interno delle famiglie allargate o branco misto come più si preferisce, ma al di la dei termini in quelle situazioni dove il carico educativo e posizionale non è più del branco di appartenenza ma di specie diverse dalla propria. Senza volere anticipare un tema che ritroveremo nel capitolo della aggressività è importante però sottolineare alcune differenze tra le due situazioni relazionali che troppo spesso producono problemi di comportamento. 

Branco intraspecifico:
le spinte genetiche che indirizzano i soggetti ai primi comportamenti vengono subito indirizzate su un equilibrio educativo prosociale. Le spinte a proporsi vengono continuamente mediate dalla possibilità di farlo secondo le risposte ricevute. C’è relazione tra dominanza e rango. 

Famiglia allargata o branco misto:
Il cucciolo quasi sempre trova rafforzamento delle sue tendenze genetiche, di qualsiasi natura siano. Le sue prime espressione non vengono indirizzate e guidate ma sopportate o addirittura subite, si passa dall’idea che poi cambierà con la crescita a quella che l’affetto è bastante a superare tutte le difficoltà. In questa situazione il soggetto impara a pretendere e gestire oltre le sue reali possibilità genetiche, si convince di essere il centro dell’attenzione e acquisisce il ruolo, poi tradotto in rango, di gestore delle iniziative sociali. In altre parole il suo sviluppo ontogenetico lo guida non verso quello che realmente potrebbe essere ma verso quello che gli fanno credere possa essere e questo lo mette in conflitto con il mondo e con se stesso. Crescere in una struttura interspecifica spesso significa che una specie si deve fare carico di fare crescere l’altra secondo le sue vie filogenetiche, secondo le sue culture e le sue motivazioni, non considerare questo ma aspettare che accada per “miracolo naturale” produce solo danni spesso irreversi.

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Luigi Polverini
Fondatore APNEC, ANCAPET, CANI E CULTURA
Docente di Pedagogia e Psicologia cinofila

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