Roma. Omicidio Antonella Di Veroli, delitto senza colpevole: nuovi elementi per riaprire il caso

“Riteniamo che ci siano elementi validi per la riapertura delle indagini”, insiste la deputata Acari

Antonella Di Veroli, commercialista uccisa nel 1994 nel quartiere Monte Sacro di Roma

Antonella Di Veroli, commercialista uccisa nel 1994 nel quartiere Monte Sacro di Roma

“Riteniamo che ci siano elementi nuovi per i magistrati per riaprire le indagini. I bravissimi giornalisti Diletta Riccelli e Flavio Maria Tassotti hanno trovato elementi nuovi, i tanti errori e depistaggi per i quali chiediamo di riaprire il caso”.

E’ un esordio diretto e forte e tutto rivolto alla Procura di Roma quello con cui la deputata e avvocata Stefania Ascari (M5S) apre la conferenza stampa di questa mattina alla Camera dei deputati dedicata al femminicidio senza giustizia e verità di Antonella Di Veroli. Nessun responsabile è stato mai individuato e l’assassino è libero.

La storia

Il corpo senza vita di Antonella Di Veroli viene scoperto nella sua abitazione a Roma il 12 aprile 1994. E’ il 10 aprile, è sera, Antonella è rincasata, cena e si prepara per la notte, chiama come di rito sua mamma, è in pigiama e probabilmente apre lei stessa la porta di casa a Monte Sacro, quartiere della Capitale dove vive, al suo assassino. Quindi lo conosceva. E’ li che tutto si ferma per sempre.

La trovano, dopo averla cercata invano in un appartamento che sembra vuoto e intatto, e dopo che stranamente non si presenta a lavoro, sigillata nell’armadio della sua camera da letto con un’anta incollata con del mastice da parquet, coperta da un cuscino insaguinato. Aveva 47 anni, single, lavorava come commercialista, molto legata alla famiglia e ai nipoti.

“Antonella è morta asfissiata da confinamento – ha spiegato la giornalista Diletta Riccelli nel corso della conferenza stampa promossa per riaprire il caso – a causa del sacchetto messo sulla sua testa e dell’esser stata chiusa in un armadio sigillato e non per i due colpi di pistola” che l’hanno stordita. La sorella Carla, che oggi si rimprovera di essersi chiusa allora “nel guscio protettivo” del dolore, ricorda: “Avevo due figli piccoli”.

La donna, in Sala Stampa, ripercorre il trauma di aver scoperto la sorella in quelle condizioni e di aver avuto fiducia nella magistratura: “Assurdo che sia stata messa lì da una persona sola. Antonella era piccolina, ma non esile. E poi è stata tenuta sul letto tante ore”, mentre agonizzava ed è allora che presumibilmente le viene messo un sacchetto sulla testa “per non vederne più il volto”.

“Qualcosa in Procura non è andato per il verso giusto”, dice Carla rispondendo a un giornalista. E tra le cose che non sono andate, stranezze, buchi investigativi e forse anche depistaggi, che i due giornalisti hanno portato alla luce dopo aver letto l’intero fascicolo, le più gravi sono la mancanza di analisi scientifica sul bossolo e la prova dello stub fatto da un agente inesperto e rivelatasi sbagliata.

Ci si indirizzò allora da subito nella vita privata, anche incedendo in letture “false e interpretazioni offensive”, come le definisce la sorella Carla per dipingere della vittima una’immagine torbida, distante dalla realtà. Il sospetto va subito su Umberto Nardinocchi, ex amante rimasto amico della vittima, e poi sul fotografo cinquantenne, Vittorio Biffani, sposato. A lui la vittima aveva prestato 42 milioni di lire. L’uomo è stato assolto in tre gradi di giudizio e per la legge è innocente.

L’inchiesta

Il giornalista Flavio Maria Tassotti, nel ringraziare il lavoro dello scrittore e collega Mauro Valentini, primo a stare sulla vicenda, spiega così quanto scoperto dalle carte del caso: “Ci sono documenti che mancherebbero e vorremmo parlare con la Procura di Roma. In quegli anni l‘omicidio dell’Olgiata, rimasto insoluto per 25 anni, e Simonetta Cesaroni di via Poma hanno preso la scena mediatica.

Di Veroli e Olgiata condividevano lo stesso procuratore e si doveva fare presto e forse proprio questa voglia di risolvere il caso ha giocato un bruttissimo scherzo e il fotografo, ultimo compagno della vittima, Biffani, è stato assolto”.

Eccole tutte in fila le quattro prove cadute nel vuoto: “Il taxi chiamato da casa Di Veroli intorno all’una di notte – spiega la giornalista Diletta Riccelli – nessuno ha ritenuto di cercare i destinatari della telefonata”; “il collarino che Antonella Di Veroli indossava già tempo prima e che riferiva fosse legato a un incidente in macchina (un’amica testimonia però di lividi ed ematomi e la macchina pare non avesse avuto alcun incidente) e questo ci fa intuire che aveva problemi con qualcuno ed era vittima di violenza”, qualcuno che la chiamava insistentemente, come riferisce un’altra amica.

Terza questione “lo stub, il guanto di paraffina: vengono condotti in caserma Biffani e Nardinocchi – ricordano i giornalisti – il carabiniere è neofita e avrebbe dovuto staccare proprio allora. Aveva fatto un corso pochi mesi prima e nel momento in cui si trova a nominare i due dischetti riferiti a due persone, A e B, scambia i dischetti e confonde le due persone”.

Entrambi gli indagati risulteranno positivi. Nardinocchi ha un alibi ed esce di scena. Biffani sarà processato ma assolto perchè il dna sul reperto dello stub si scoprirà non essere il suo. Ma i giornalisti si domandano a proposito di Nardinocchi: “Lui stesso dichiarò di aver sparato in un poligono comunale nel 1993.

Nella casa di Marino aveva un poligono personale, ma la sua positività non è giustificata perchè in quella giornata nessuno a casa avrebbe sparato se non domenica 27 marzo, 17 giorni prima dei fatti. Perchè non un ulteriore controllo su di lui?”, si domandano i giornalisti.

Il bossolo

E poi l’elemento principe: il bossolo: “La pistola che ha sparato non è mai stata trovata, ma sappiamo che era un calibro 6.35, un’arma da taschino che sta in un palmo della mano, definita da collezione. Molto datata ed era difficile reperire bossoli in Italia, ma risulta che un individuo vicino ad Antonella si era recato con lei in Svizzera”. E’ possibile ancora fare un esame su questo bossolo? – si domandano i due cronisti – ci abbiamo provato a creare un dialogo con la Procura ma la deputata Acari ha trovato un muro”.

E’ la stessa deputata a dirlo. “Tutte le domande di oggi avremmo voluto porle alla procura di Roma, ma purtroppo non c’è stata data possibilità di questo incontro. Ed ecco la ragione di questa conferenza stampa. C’è una memoria pronta, un lavoro certosino e di passione fatto in coordinazione con la famiglia. Sono passati 30 anni e chiediamo di essere ricevuti. Riteniamo – insiste la deputata – che ci siano elementi validi per la riapertura delle indagini.

C’è una famiglia che da 30 anni attende verità dopo tanta sofferenza“. E infine un accenno a quella narrazione che la stampa del tempo fece di Antonella Di Veroli, insistendo sul dato che non avesse marito o figli, o sulla sua non bellezza. Ascari dice: “L’affetto che le nipoti hanno manifestato quando ci siamo incontrate verso una persona che non c’è più da tanto tempo dice molto del legame di Antonella con la famiglia. Una donna, voglio ricordarlo, ammazzata nel fiore degli anni”.

E la deputata aggiunge che a breve sarà costituita la nuova commissione femminicidio che potrebbe con poteri investigativi tornare anche sul caso. La sorella Carla con emozione, come a voler rettificare quella narrazione dei tanti giornalisti che denigrarono sua sorella al tempo, la ricorda con parole dolci: “Una persona dedita al lavoro, che voleva una famiglia ma poi la vita era andata diversamente, adorava i suoi nipoti, aveva la sua vita, era generosa, molto corretta.

Hanno voluto infangarla persino dicendo che non era bella. Siamo qui per chiedere giustizia, perchè Antonella è stata ammazzata in quel modo orribile” e le vittime senza giustizia diventano come fantasmi. “Credo che la Procura dovrebbe ascoltare le persone offese, no?”, conclude con una speranza che dopo 30 anni torna d’improvviso ad accendersi. Per la contessa dell’Olgiata Alberica Filo della Torre ce ne vollero poco più di 20. (Sim/ Dire)