Armarsi e sparare, o starsene buoni. Il dilemma del cittadino aggredito

L’ultimo caso è quello di Fredy Pacini. Che per Roberto Saviano ha fatto male: meglio subire, che uccidere

Ci riguarda? Sì, ci riguarda. Il dibattito sull’uso delle armi per difesa personale, da parte di noi cittadini “qualsiasi”, non è una questione campata per aria. E accanto agli aspetti etici, che sono tanti, ci sono quelli pratici, che non sono certo di meno.

Ogni volta che qualcuno reagisce sparando ai criminali di turno, e un ladro o un rapinatore ci lascia la pelle, la discussione si riaccende. Quelli favorevoli si schierano compatti dalla parte di chi non si è lasciato derubare/aggredire ed è arrivato ad ammazzare. Essendo arcistufi dei discorsi altisonanti, e inconcludenti, sullo Stato che è l’Unico e il Solo a dover garantire l’ordine pubblico, altrimenti diventa tutto un Far West, non si lanciano in complesse disquisizioni teoriche e vanno dritti al sodo: lo sparatore ha fatto bene, non se ne può più, ma quale processo, dovrebbero dargli una medaglia.

Dalla parte opposta, invece, ci sono quelli che sono contrari per principio. Quelli che rabbrividiscono al solo pensiero di una situazione del genere e che, perciò, fanno di tutto per escluderla a priori. Come? Esorcizzandola. Tentando di avvilupparla in una rete di ‘ottimi’ motivi per cui sarebbe meglio non pensarci nemmeno, ad avere una pistola o un fucile e ad usarli in caso di aggressione. Un po’ si volta alto: con gli  alati richiami alla sacralità della vita (del delinquente). Un po’ si cammina raso terra: con le prosaiche sottolineature dei rischi e delle conseguenze. I rischi ai quali ci si espone ingaggiando conflitti a fuoco con i delinquenti, che in quanto tali sono più avvezzi alla violenza e quindi (miodio!) si potrebbero incattivire ancora di più. E le conseguenze, sia giudiziarie sia interiori: non è detto che il giudice riconosca la legittima difesa, la vicenda andrà sicuramente per le lunghe, e comunque, dentro di sé, si porterà il peso, tremendo, dell’omicidio compiuto.

Svolazzo più, svolazzo meno, è quello che ha scritto ieri Roberto Saviano su Repubblica.

Fredy Pacini “è un imprenditore, non un criminale”

Potrebbe bastare questo passaggio, nell’articolo intitolato ‘La pistola che distrugge due vite’ e firmato dall’autore di Gomorra e di Zero Zero Zero, a sintetizzare l’errore di approccio. La prospettiva fuorviante di chi inorridisce ogni volta che qualcuno si difende armi in pugno.

L’equazione sballata è che criminali e vittime diventino un tutt’uno, se entrambi si muniscono di pistole o fucili e sono pronti a sparare. E altrettanto sballato è attribuire un inevitabile tormento interiore a chi abbia ucciso qualcuno, a prescindere dalle circostanze, e dalle ragioni, che hanno portato a quel tragico evento.

Saviano drammatizza. E nel farlo generalizza. Scrive: “Quello che nessuno vi dice ora è che, anche se hai paura e ti vuoi difendere, anche se sei stato vittima di ripetute ingiustizie, uccidere ti cambia la vita, pensare che sei dovuto arrivare alle estreme conseguenze per difendere ciò che è tuo è un pensiero insopportabile per chiunque”.

Ma è davvero così? Lo è per tutti – per tutti in quanto esseri umani – o dipende invece dal fatto che gli odierni stili di vita tendono a renderci rammolliti e infantili?

L’errore di Saviano e di quelli come lui è tutto qui. È nel dare per scontato che non si possa essere allo stesso tempo pacifici, in tempo di pace, e guerrieri, in tempo di guerra. Assolutamente miti, laddove non si venga aggrediti, e risolutamente combattivi, quando l’aggressione vi sia.

Possedere delle armi, e saperle maneggiare, ed essere determinati a utilizzarle fino alle estreme conseguenze, non avvicina di un millimetro l’uomo onesto al criminale. Perché la differenza non la fa l’essere armati oppure no. La differenza – e c’è da chiedersi come si faccia a non capirla – è tra chi vuole sopraffare gli altri con la violenza e chi non se lo sogna nemmeno.

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