I racconti della Passione nel Vangelo di Marco

di Il capocordata

Un’osservazione generale s’impone fin dall’inizio: il racconto della Passione occupa un posto importante, oltre che sproporzionato, nei singoli vangeli. Dal momento che i vangeli sono stati redatti dopo la risurrezione di Cristo, non ci attenderemmo un’insistenza così accentuata sulle scene dolorose della Passione. Invece, la luce della risurrezione non ha favorito questo modo di vedere, non ha portato ad una religione di evasione, valorizzando tutta l’esistenza del Signore Gesù e in particolare i suoi aspetti più sconcertanti: contraddizione e sofferenza. La luce della risurrezione investe irresistibilmente la stessa Passione, e le due realtà vengono a costituire un’unità indissolubile: la Passione non è stata una sconfitta, bensì un combattimento vittorioso, autentico compimento del piano di Dio.

Una seconda constatazione riguarda lo stile del racconto della Passione che costituisce un insieme coerente, solidamente articolato. C’è un accordo perfetto tra i quattro evangelisti: pare che nella tradizione della chiesa primitiva sia nato prestissimo un racconto della Passione che ne fissava le linee essenziali. Nel racconto di Marco (14, 1-15, 47) distinguiamo due componenti: un racconto di fondo, dallo stile sobrio, schematico e redatto in greco; e alcune aggiunte, con uno stile più vivo e concreto, da parte dell’evangelista stesso.

Il racconto di Marco è “cherigmatico” (un annuncio): esso proclama la realizzazione sconcertante del piano di Dio. E’ il racconto di un testimone, mette in risalto i contrasti, sottolinea il paradosso: la croce si rivela scandalosa, ma nello stesso tempo manifesta il Figlio di Dio. Il risultato è un atto di fede, di sottomissione al mistero.

L’arresto di Gesù: lo choc dei fatti (vv. 32-52)

Marco racconta i fatti nella loro cruda realtà, lo stile è diretto e brusco. Gesù viene catturato; uno dei presenti sguaina la spada e colpisce. Gesù è abbandonato da tutti. Un giovane (forse lo stesso evangelista) che lo seguiva viene fermato, ma riesce a fuggir via nudo. Quasi nessuna spiegazione: si rimane con una impressione di profondo turbamento.

Il processo giudaico: dignità messianica e maltrattamenti (vv. 53-72)

Il risultato del processo è già scontato fin dall’inizio: Gesù deve essere messo a morte (v. 55). Ma questa prospettiva urta con i fatti: Gesù non ha commesso nulla che meriti tale sentenza. Inoltre, le testimonianze non sono concordi. Finalmente il sommo sacerdote interroga Gesù se è lui il Messia, il figlio del Dio Benedetto. La risposta di Gesù rappresenta una solenne proclamazione di messianicità trascendente. Essa scatena solo reazioni negative: si grida alla bestemmia, si afferma che Gesù è reo di morte; viene malmenato e dileggiato; Pietro lo rinnega; i suoi nemici lo legano come un malfattore per consegnarlo a Pilato.

Il processo romano: i giudei contro il re dei giudei (15, 1-20)

Il processo romano è il processo del “re dei giudei”: il titolo ritornerà più di una volta sulle labbra di Pilato; verrà ripreso anche dai soldati romani e offrirà lo spunto per i loro crudeli divertimenti. I giudei si accaniscono contro Gesù e lui non risponde nulla. Pilato cerca di vederci chiaro, Gesù tace: Pilato non si raccapezza. Dopo, Gesù viene messo a confronto con un sedizioso omicida: chi dei due deve essere liberato? Chi punito? Il procuratore romano propone di liberare il re dei giudei, che non ha commesso alcun delitto, ma la folla dei giudei, istigata dai sommi sacerdoti, chiede che sia inflitto al suo re il supplizio romano, la croce; alla fine, Pilato cede.

Il Calvario: dalle tenebre scaturisce la luce (vv. 21-47)

Nel racconto di Marco possiamo distinguere sei momenti successivi: requisizione di Simone di Cirene, crocifissione, dileggi, tenebre, morte di Gesù e sue ripercussioni, menzione delle pie donne. Quando Gesù muore sembra che tutto sia finito: in realtà tutto è compiuto. Due segni vengono immediatamente a testimoniare questo compimento. Il primo riguarda il tempio, il cui velo si lacera; il secondo consiste in una professione di fede che la morte di Gesù mette sulle labbra del centurione: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (v. 39). Questi segni possono sembrare poca cosa; in realtà, hanno in sé il valore decisivo di una conclusione. In maniera del tutto inattesa, fissano il significato dell’avvenimento, attraverso un ultimo rovesciamento paradossale.

Il contesto di umiliazione e di sofferenze che accompagnano la solenne proclamazione di Gesù di fronte al sommo sacerdote e la professione di fede del centurione ai piedi della croce di Gesù non solo non le contraddice, ma è il mezzo paradossale scelto da Dio per portarle a compimento. Perché la sua gloria di Figlio di Dio penetrasse perfettamente nella sua natura umana, era necessario che questa sua natura subisse una nuova totale fusione nel crogiuolo della Passione e fosse interamente rinnovata dall’obbedienza filiale della croce. Ma nulla di tutto questo si impone a prima vista. Gli avvenimenti offrono in un primo momento un’immagine rovesciata, un negativo del mistero. La luce scaturisce solo quando le tenebre sono più fitte: quando Gesù è morto, la parola del centurione afferma la sua filiazione divina. Ecco il punto più importante della testimonianza di Marco.

La morte di Gesù è legata alla lacerazione del velo del tempio. La natura umana di Gesù ha subito la morte perché il tempio, lordato dal peccato degli uomini, era votato alla distruzione, era ormai svuotato della sua sostanza. Il tempio antico sarà immediatamente sostituito: la frase del centurione sul Calvario è una testimonianza della edificazione del nuovo santuario. Essa è immagine dell’adesione dei pagani alla fede e del loro ingresso nel nuovo tempio, casa di preghiera per tutte le genti.

La sepoltura di Gesù (vv. 42-47)

La morte di Gesù è il punto di partenza: i due segni che ne rivelano la fecondità la presentano come uno slancio vittorioso verso la risurrezione. Accompagnandoci al sepolcro e nominando le donne (le due Marie), la finale ci prepara alla scoperta del mattino di Pasqua.                             

Bibliografia consultata: Vanhoye, 1972.

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