La festa di Pentecoste

Il dono dello Spirito Santo

La festa di Pentecoste che celebreremo domenica 19 maggio 2013 viene a chiudere il tempo di Pasqua: essa, infatti, cade nel cinquantesimo (Pentecoste) giorno dalla Pasqua di Risurrezione. Per approfondire il mistero di questa celebrazione liturgica ci serviremo del testo della prima lettura (Atti, 2, 1-11) e del testo del Vangelo di Giovanni (14, 26). Il testo degli Atti, scritto da Luca, ci narra i segni avvenuti il giorno della Pentecoste; mentre il testo del vangelo è tratto dai discorsi di addio che Gesù rivolge ai suoi nell’ultima cena quando promette ai suoi il dono del Paràclito, cioè lo Spirito Santo.

“Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste”, così inizia Luca la narrazione del giorno della Pentecoste, o “cinquantesimo” giorno, detta anche “festa delle settimane”, ossia delle sette settimane dopo Pasqua, nominata già nell’Antico Testamento (Lev. 23, 15-16). Essa richiamava alla mente degli israeliti la manifestazione divina sul monte Sinai e la promulgazione delle tavole della Legge (i dieci comandamenti). La Pentecoste, festa del cinquantesimo giorno, veniva celebrata dai Giudei sette settimane dopo l’offerta delle primizie della mietitura. Costituiva appunto la festa della Mietitura e rappresentava, con quella degli Azzimi e quella del Raccolto, una delle tre feste con l’obbligo del pellegrinaggio al santuario di Jahvè. Essa, come abbiamo detto, si poneva in relazione con la promulgazione della Legge sul Sinai. Infatti, gli Esseni, gruppo religioso al tempo di Gesù, la celebravano come festa dell’Alleanza, che in quel giorno rinnovavano solennemente impegnandosi con un giuramento a restare fedeli alle prescrizioni dell’alleanza divina.

Non stupisce affatto, allora, se la narrazione degli Atti contenga parecchie allusioni ai fatti del Sinai (cfr. Es. 19). “Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo” (2, 1): questo elemento ricorda l’unanimità d’Israele al momento della promulgazione della Legge; tutto il popolo fu concorde nell’impegnarsi a mettere in pratica le parole del Signore. La presenza dello Spirito si manifesta anzitutto come “un fragore” (v. 2), un rumore rimbombante, e poi attraverso l’apparizione di lingue di fuoco che si ripartiscono su tutti i presenti (v. 3). Voce che rimbomba e fuoco: questi sono i fenomeni che caratterizzano la manifestazione di Dio sul monte Sinai: “Tutto il popolo vedeva il tuono, i lampi, il suono della tromba, il monte fumante” (Es. 20, 18).

Senza dubbio ce n’è abbastanza per permettere di pensare che la descrizione della venuta dello Spirito sugli apostoli evochi intenzionalmente gli avvenimenti del Sinai. L’accostamento rivela un primo aspetto del mistero della Pentecoste cristiana: l’invio dello Spirito si sostituisce alla promulgazione della Legge; l’alleanza che era fondata sulla legge mosaica viene rimpiazzata da una nuova alleanza, basata sulla presenza e sull’azione dello Spirito nei cuori. Tale alleanza non è più legata all’obbedienza a comandamenti imposti dal di fuori, ma ad una trasformazione intima operata dallo Spirito che ispira a coloro che lo hanno ricevuto un atteggiamento filiale nei riguardi di Dio.

Chi sono coloro che assistettero a questi effetti prodotti dallo Spirito? Essi provengono “da ogni nazione che è sotto il cielo” (v. 5): Luca ci vuole segnalare il carattere universale della discesa dello Spirito Santo; i testimoni della Pentecoste rappresentano tutte le genti alle quali gli apostoli devono rivolgere la loro missione di annuncio del Vangelo. Dall’istante in cui lo Spirito è sceso sugli apostoli, la Chiesa si è trovata di fronte alla sua missione universale. Dopo più di venti secoli, non ha ancora finito di scoprire le esigenze di una vocazione che appartiene al suo stesso essere: la sua vocazione missionaria.

L’effetto prodotto sugli apostoli dalla venuta dello Spirito presenta una certa analogia (somiglianza) con il dono delle lingue: l’azione dello Spirito rende capaci gli apostoli di parlare ai presenti nella lingua propria di ciascuno. Il fatto merita di essere sottolineato perché caratterizza felicemente l’universalismo della Chiesa. E’ chiaro l’insegnamento: tocca alla Chiesa assumere tutte le lingue degli uomini e tutte le culture di cui tali lingue sono l’espressione e il veicolo. Essa non deve condurre gli uomini a capire il suo linguaggio “ecclesialese”, ma parlare ad essi nel loro linguaggio. La vocazione universale della Chiesa non le permette di identificarsi con qualsiasi cultura particolare, ma la obbliga a ritradurre sempre e di nuovo il suo messaggio (depositum fidei) per renderlo intelligibile agli uomini, fra tutti i popoli e attraverso tutti i tempi, in conformità alla loro lingua, alla loro cultura e ai loro modi di pensare. Si tratta di un compito arduo, ma proprio per poterlo compiere la Chiesa ha ricevuto lo Spirito Santo nel giorno della Pentecoste.
D’altra parte, è soprattutto questo il messaggio che cinquant’anni fa i Padri conciliari hanno voluto consegnare ai cristiani del ventesimo secolo nei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, da tutti considerato come “la nuova Pentecoste” della Chiesa contemporanea; come pure l’invito degli ultimi Pontefici verso “una nuova evangelizzazione”: una predicazione nuova non nei contenuti quanto nelle modalità nuove di annuncio negli “areopaghi” (ambienti) moderni.

Anche nel Vangelo (Gv. 14, 16.26) ci viene promesso lo Spirito Santo: “…io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre…Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. E’ molto interessante mettere in evidenza che si tratta di un “altro Paràclito”, un altro consolatore. Il primo consolatore è Gesù stesso, che è venuto non a condannare, ma a salvare ciò che era perduto. Anche lo Spirito Santo, in qualità di Paràclito, di colui che si pone accanto ad ognuno di noi, è colui che difende, protegge, consola, esorta i credenti in Gesù Risorto. Non è un accusatore, ma un difensore e un avvocato, che sa giudicare ogni cosa per quella che è. Tale consolatore è inviato dal Padre e ha come compito specifico di insegnare e far ricordare tutto ciò che Gesù ha detto.

L’opera dello Spirito Santo consiste, dunque, nell’insegnare e nel farci ricordare le parole che Gesù ci ha detto e lasciato scritto nel Vangelo. Lo Spirito Santo è il “Maestro interiore” che ci attira verso Gesù, ci parla di lui, ce lo fa conoscere non solo nella nostra mente ma soprattutto nel nostro cuore, quindi ce lo fa amare, ci fa entrare in intima comunione con lui, in poche parole ce lo imprime nel nostro cuore, secondo il significato nella lingua latina della parola “ricordare”: legare la persona al cuore dell’altro. L’auspicio del capocordata per chi sta leggendo queste riflessioni è quello che ognuno di noi, seguendo l’ispirazione del “Maestro interiore”, impari ad amare di più Gesù.

Bibliografia consultata: Dupont, 1970; Girolami, 2013.

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