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Monte Compatri, il neonato morto in un tombino e il fast food dove nel water trovarono un bimbo ancora vivo

di Lina Gelsi
Il neonato è stato spinto nel water ancora vivo. L’autopsia parla di annegamento e di una lesione sulla schiena forse causata dalla forza esercitata per liberarsene
Ospedale Policlinico Casilino
Ospedale Policlinico Casilino

Montecompatri, in una serata come tante, per una donna e un bambino mai conosciuto, la storia ha preso la forma del silenzio. Quello di un neonato partorito in un bagno e finito morto in un tombino. Il corpo piccolo, un chilo appena, trenta centimetri, è stato ritrovato incastrato nelle tubature. Era vivo quando è stato gettato. E questo è il dettaglio che cambia tutto. Responsabile è una donna di 29 anni. Nata in Nigeria, vive in Italia da qualche tempo. Ha altri due figli. Il 12 ottobre era a casa di amici, quando avrebbe indotto un parto prematuro alla 25esima settimana. Nessun ospedale, nessuna assistenza. Solo un bagno, un malore, e poi — secondo l’accusa — una decisione.

Gli inquirenti parlano chiaro: il neonato è stato spinto nel water ancora vivo. L’autopsia parla di annegamento. E di una lesione sulla schiena che potrebbe essere stata causata proprio dalla forza esercitata per liberarsene.

Il parto negato e una verità difficile da afferrare

Quando la donna arriva al Pronto Soccorso del Casilino, i medici si accorgono subito che qualcosa non va. Tracce evidenti di un parto, ma nessun bambino. Lei nega tutto. Dice di avere avuto un mal di pancia. Dice che era ubriaca, che stava male. Che ha sentito un tonfo, e ha visto molto sangue. Una versione che però non regge: né alla logica, né all’esame medico. E nemmeno alla memoria del DNA, che metterà in fila i pezzi, collegando il corpo ritrovato nel tombino al grembo che l’ha generato.

La donna racconta di non sapere di essere incinta. Che si era lasciata col compagno a dicembre. Che quei crampi, quelle fitte, le aveva attribuite a qualcosa di banale. L’ipotesi della Procura, invece, parla di un atto voluto: un parto indotto, forse con farmaci, in un contesto privato e rischioso. E poi un gesto che lascia senza fiato. Non solo perché riguarda un neonato, ma per la freddezza, per l’abbandono senza appello.

L’indagine e le sue tracce invisibili

Il caso si apre quando, dopo il ricovero, i medici allertano le forze dell’ordine. Partono le verifiche, si ricostruisce la sera, la casa, gli spostamenti. Si cerca, letteralmente, nei canali di scarico. È lì che il corpicino viene ritrovato. Il luogo non è casuale: coincide con l’abitazione dove Jennifer era stata soccorsa. Le tubature diventano una mappa del delitto. E il ritrovamento del piccolo diventa una conferma. Di un sospetto già solido.

Nel frattempo, lei si è allontanata. Viene rintracciata in un appartamento alla periferia est della capitale, zona Borgata Finocchio. Viene arrestata. Viene portata a Rebibbia. Gli altri due figli vengono affidati alla sorella. Gli investigatori della Mobile e del Commissariato Frascati non sembrano avere dubbi. Il fascicolo si arricchisce di dettagli clinici e tecnici, ma resta difficile penetrare le motivazioni reali. È un’indagine che scava, oltre che nei fatti, nella psiche.

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Il precedente del fast food e l’eco di una società che ignora

Non è la prima volta che accade. E la memoria collettiva, inevitabilmente, torna al dicembre 2012. Roma, quartiere Eur. In un bagno di un fast food, un addetto alle pulizie trovò un neonato nel water. Era ancora vivo. Anche lì la madre, una giovane romena, aveva partorito di nascosto, e aveva lasciato che fosse il caso — o la morte — a occuparsene. Venne identificata qualche mese dopo grazie alle telecamere. La giustizia parlò di tentato infanticidio. Quattro anni.

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Ma i paralleli non sono solo giudiziari. Sono sociali. Perché in entrambi i casi, il parto avviene in luoghi di passaggio. Senza nessun supporto. Senza che nessuno si accorga di nulla, fino a quando è troppo tardi. E in entrambi i casi, la madre sembra agire in uno stato di profonda alienazione, quasi dissociata dalla realtà.

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C’è un vuoto che attraversa queste storie. E non è solo quello lasciato dalla vita che non è mai cominciata davvero. È il vuoto di contesto, di strumenti, di ascolto. Un abisso in cui una madre può arrivare a dire: “Non sapevo di essere incinta”, e la sua voce suona spenta, confusa, ma reale. E intorno, nessuno che abbia sentito niente. Nessuno che abbia visto.

Dentro l’indicibile, oltre la cronaca

Questa non è solo la storia di un infanticidio. È il racconto di un blackout emotivo, relazionale, forse culturale. Un episodio che lascia molte domande e poche certezze, anche per chi indaga. Un’inchiesta che cammina tra medicina legale, psicologia e un contesto che fa fatica a riconoscere i segnali prima che sia tardi.

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Non si tratta di capire se sia colpevole, ma cosa abbia portato a questo gesto. Cosa sia scattato nella mente di una donna già madre di altri due bambini. Cosa abbia fatto sparire ogni traccia di istinto di protezione, ammesso che ci fosse. E cosa ci sia attorno a queste storie che le rende così possibili, così invisibili. Perché il dolore, a volte, si nasconde nei luoghi più inaspettati. Anche dentro le tubature di una casa qualunque.

 

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