Religione, il discorso del Buon Pastore e la vita eterna

di Il capocordata

“Le mie pecore ascoltano la mia voce e mi seguono” (v. 27)

Gesù pronuncia queste parole, che fanno seguito al discorso precedente sul Buon Pastore (Gv. 10, 27-30), nel tempio di Gerusalemme durante la festa della Dedicazione. I giudei fanno cerchio attorno a lui e lo provocano perché si identifichi col messia e dica parole che autorizzino la sua condanna ufficiale. Identificandosi con il Pastore atteso preannunciato dal profeta Ezechiele, Gesù afferma implicitamente di essere il messia davidico: come promesso, il Signore (Yhwh) è tornato a occuparsi personalmente delle sue pecore, suscitando un pastore secondo il suo cuore. Gesù deve però constatare che i suoi interlocutori restano increduli, perché non sono sue pecore. A questo punto, inizia a descrivere ciò che ha in serbo per le sue pecore, cioè, per quanti, ascoltando la sua voce, accettano di diventare discepoli.

Essi conoscono la voce di Gesù, per questo lo seguono. La conoscenza, nella Scrittura, si attua mediante l’ascolto, cioè attraverso un’adesione che è partecipazione all’intimità dell’altro in un legame di comunione che è esperienza di amore. Il Buon Pastore ama le sue pecore e le conosce per nome, una per una; per questo le chiama ed esse lo seguono con naturalezza. Il fatto di appartenere al Pastore, facendo parte del suo gregge, è il presupposto di questa straordinaria familiarità. Le pecore sono libere e al sicuro, perché il Pastore le ha riscattate, chiamandole a far parte del suo recinto.

Appartenere al gregge è sinonimo di libertà

Appartenere al gregge è essere, per sempre, nella mano del Figlio. Attraverso le parole di Gesù, l’evangelista Giovanni si rivolge ai membri della sua comunità, con tutta probabilità giudei che hanno aderito al messaggio del Vangelo, a costo di venire estromessi dalle sinagoghe. Egli ricorda a costoro e alle pecore di ogni tempo che l’appartenenza al gregge del Buon Pastore è sinonimo di libertà: la Chiesa, lungi dall’essere una prigione o un luogo di costrizione, è lo spazio della vera libertà del credente.

La vicenda del cieco nato descritta nel capitolo precedente è la trascrizione drammatica di questo percorso dalla schiavitù alla libertà che coincide con il cammino del discepolato. Quale pecora che ha risposto alla voce del Buon Pastore, il cieco ha dato credito alla parola di Gesù ed è andato a lavarsi alla piscina di Siloe; è rimasto nella sua parola, affrontando molteplici ostacoli e prove da parte dei capi del suo popolo; è divenuto un autentico discepolo, ha conosciuto la verità e ha visto in Gesù il Figlio dell’uomo. La verità lo ha reso libero: prima era un mendicante, ora è un uomo autonomo, smarcato da ogni compromesso con le tenebre del peccato.

La mano del Figlio è la mano del Padre (v. 29)

Di fatto la sequela delle pecore è possibile perché il Padre, a cui esse appartengono, le ha donate al Figlio. Se Gesù le chiama “sue” è perché sa che gliele ha donate il Padre. Le pecore seguono Gesù perché il Padre le attira a lui e gliele dona. La mano del Padre è dunque una mano aperta, che dona e non afferra in modo possessivo. La mano del Padre è indissociabile da quella del Figlio: né l’una né l’altra si stringono a pugno per possedere. Eppure nessuno può strappare le pecore dalla loro mano. Tutto ciò che è protetto nella mano del Padre si trova al sicuro in quella del Figlio.

“Io do loro la vita eterna” (v. 28)

Il Buon Pastore è l’antitesi del mercenario. Proprio perché le pecore non gli appartengono, questi non ha alcuna relazione personale con esse e si disinteressa di loro; sfrutta il gregge e toglie la vita alle pecore; nel momento del pericolo non le protegge. Il Buon pastore, al contrario, dà la vita per le pecore che ha ricevuto dal Padre. Gesù non si aggrappa alla propria vita, ma se ne espropria permanentemente. Il Buon Pastore rischia la vita per le pecore; Gesù la dona per poi riprenderla di nuovo: egli dà la vita eterna.

La lingua greca conosce almeno tre termini per definire la vita: c’è il termine “bios”, cioè la vita intesa in senso biologico come espressione della materia; la “psyché” che è l’anima dell’uomo, cioè il suo respiro vitale, ciò che mette in moto il dinamismo della vita; infine c’è la “zoè” ovvero la vita intesa in senso qualitativo come espressione della presenza e dell’azione dello Spirito di Dio. La vita (psychè”) di Gesù è efflorescenza della vita (zoè) di Dio: offrendo la sua vita, egli dona agli uomini la vita eterna, cioè li rende partecipi della vita dell’Eterno.

Il Figlio ha da offrire la vita eterna perché viene dal Padre che è la Vita. Ricevere da lui la vita significa lasciarsi aggregare all’unico gregge del Buon Pastore, entrando in quello spazio di unità che è la relazione tra lui e il Padre: in quel recinto, che è il nuovo tempio del corpo di Cristo, profanato dalla furia degli uomini ma fatto risorgere da Dio al terzo giorno, le sue pecore non vanno perdute in eterno e ricevono la vita stessa di Dio nel dono dello Spirito.

In questa giornata mondiale di preghiera per le vocazioni siamo invitati ad andare al cuore della nostra esperienza di fede. Agli occhi di Gesù ognuno di noi è unico e quindi vive un rapporto del tutto personale con lui. Allo stesso tempo, ci invita a far parte del suo gregge, che si lascia condurre da lui, che è il Buon Pastore, colui che ha dimostrato il suo amore offrendo la sua vita per noi. La sua voce si fa intendere e genera fiducia, induce a seguirlo senza alcun timore.

Bibliografia consultata: Rossi, 2019; Laurita, 2019.

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