Religione, il segno del cieco nato divenuto vedente

di Il capocordata

Il segno del cieco dalla nascita, guarito, (Gv. 9, 1-41) rivela la lotta drammatica tra la luce e le tenebre che costituisce, secondo il quarto Vangelo, l’evento centrale della storia: “la luce brilla nelle tenebre e le tenebre non la compresero” (Gv. 1, 5). Nella persona di Gesù, che afferma di essere la luce del mondo, si storicizza il dramma della lotta tra la luce e le tenebre. L’episodio del cieco nato viene a cadere in un momento caratterizzato da manifestazioni di ostilità crescente contro Gesù, situate nel contesto delle feste ebraiche.

“Passando, vide un uomo cieco dalla nascita” (v. 1). Siamo a Gerusalemme, durante la festa ebraica “delle capanne” (Sùkkòt, in ebraico). E’ Gesù che prende l’iniziativa. Egli vede la miseria dell’uomo e interviene senza che gli venga rivolta alcuna richiesta. Con la guarigione di quest’uomo, Gesù vuole manifestare il senso della rivelazione che egli è la luce del mondo. La domanda dei discepoli: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (v. 2), è conforme alla mentalità del tempo, ma la risposta di Gesù contesta questa mentalità. L’uomo cieco dalla nascita, la cui cecità non è imputabile né ad una sua colpa né a quella dei suoi genitori, raffigura un’altra tenebra, originaria, quella in cui si trova ogni uomo prima di essere illuminato dalla rivelazione del Figlio. Forse è questo il motivo per cui il cieco-nato, benché mendicante, non formula alcuna preghiera: non può domandare ciò che ignora.

Interessante notare come in questo caso, diversamente dagli altri segni, Gesù usa del fango per spalmare gli occhi del cieco. Il gesto è ricordato ben quattro volte nel corso della narrazione: il gesto di Gesù richiama il gesto con cui Dio ha creato l’uomo, secondo il racconto della creazione (“modellò l’uomo con la polvere del terreno”). Inoltre, Gesù, dando al cieco nato l’ordine di andare a Siloe, cioè l”Inviato” che è lui stesso, si manifesta come colui che ha la missione di liberare l’uomo da queste tenebre. Durante la “festa delle Capanne”, una processione veniva ad attingere acqua alla piscina di Siloe. Con l’ordine dato al cieco, Gesù manifesta che l’acqua trae la sua capacità risanatrice solo da lui, in quanto “Inviato” di Dio. L’evangelista, infatti, dice, sobriamente, che il cieco nato “ritornò vedendoci” (v. 7).

“In che modo ti sono stati aperti gli occhi?” (v. 10).Di fronte al “segno”, che rivela Gesù come luce del mondo, si rivelano ora le reazioni degli uomini, che l’evangelista descrive con un linguaggio carico di ironia. Nel dialogo si delineano progressivamente due processi: quello dei “giudei”, che si chiudono sempre più alla luce, e quello del cieco nato, che passa dalla luce degli occhi alla illuminazione della fede.

La reazione della gente è di stupore e di smarrimento: discute sull’identità del cieco nato. Preferiscono demandare il caso a chi è più importante, conducendo il cieco guarito dai farisei, che si dimostrano divisi sull’interpretazione: alcuni affermano che Gesù non viene da Dio, perché non osserva il Sabato; altri, di parere diverso, dicono che un peccatore non può compiere “segni” di questo genere (v. 16). Ma il cieco nato, guarito, fa la sua affermazione di fede che Gesù “è un profeta” (v. 17).

“Tu, credi nel Figlio dell’uomo?” (v. 35). Gesù, scomparso di scena dopo aver guarito il cieco, “trova” il cieco guarito che era stato cacciato fuori dalla sinagoga (v. 35): si direbbe che lo cercasse per condurlo alla fede. Quando Gesù lo “trova”, il cieco nato è già arrivato sulla soglia della fede. Nell’interrogatorio precedente da parte dei farisei, egli aveva definito Gesù “un profeta”, poi “uno che onora Dio e fa la sua volontà”e, infine, “uno che viene da Dio”, un suo inviato. Ma per entrare definitivamente all’interno della fede, deve rispondere alla domanda postagli da Gesù: “Tu credi nel Figlio dell’uomo?” (v. 35). “E chi è, Signore, perché io creda in lui”, chiede il cieco guarito a Gesù; e si sente rispondere: “ Lo hai visto: è colui che parla con te” (v. 37). Il verbo usato da Gesù, “lo hai visto”, è diverso da quello usato per dire che l’uomo ci vedeva: esso indica un vedere più profondo, che altro non è se non la fede.

“Siamo ciechi anche noi?” (v. 40). Ogni incontro con Gesù provoca necessariamente una discriminazione: la luce accolta conduce all’illuminazione, la luce respinta fa sprofondare ancora di più nelle tenebre. L’evangelista Giovanni non conosce altro peccato che il rifiuto della luce. La domanda di alcuni farisei: “Siamo ciechi anche noi?” (v. 40), manifesta già la loro situazione di rifiuto a cercare la luce. Il vero peccato non consiste nell’essere ciechi, ma nella pretesa di vedere, di sapere già tutto: “ Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia” (v. 29).

All’inizio del racconto la cecità fisica era falsamente interpretata come una conseguenza del peccato. Il racconto si chiude su questa drammatica affermazione: esiste veramente un accecamento che ha le sue cause nel peccato, che è la pretesa di sapere e il conseguente rifiuto a cercare la verità. E ciò riguarda tutti, perché la luce di Gesù ci trova tutti ciechi: ognuno è chiamato a scegliere se appartenere ai ciechi che si aprono alla luce o a coloro che ritengono di vedere e invece sprofondano nelle tenebre. Gesù ha il potere di dare, in nome di Dio, la vista a coloro che non vedono, in modo che, avendoli incontrati e interpellati, possa dir loro: “Il Figlio, tu l’hai già veduto”. Oggi, nella Chiesa, ogni battezzato può sentirsi dire da Gesù: Tu mi hai già veduto! E vivere da illuminato figlio della luce!                                                                               

Bibliografia consultata: Nason , 2017.

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