Religione, La missione dei settantadue discepoli

di Il capocordata

La missione dei Settantadue (Lc. 10, 1-20) si innesta all’inizio della sezione centrale del Vangelo di Luca, che si presenta come un lungo cammino di Gesù verso Gerusalemme. L’evangelista introduce un vero discorso che rappresenta l’autentico “discorso della missione”, iniziato in precedenza con l’invio dei Dodici. Alla prospettiva universalistica (il numero 72, come tutti i popoli della terra), si sovrappone la prospettiva escatologica, che si manifesta mediante le immagini del fuoco dal cielo e della messe (v. 2), del giudizio (vv.12-15) e della detronizzazione di satana (v. 18).

L’invio in missione (vv. 1-16)

Gesù, dopo aver scelto altri 72 discepoli, li “invia” là dove stava per recarsi. Sono “altri” non diversi dai Dodici. La differenza non è nell’origine e nel fine. E’ come quella che c’è tra le fondazioni e la costruzione dello stesso edificio. I Dodici costituiscono l’aggancio al Gesù storico e continuano la sua missione verso le dodici tribù di Israele. I Settantadue la prolungano nello spazio e nel tempo, rivolgendosi a tutte le famiglie della terra che in lui sono benedette. “Due a due”: sono mandati in coppia, sia per ragioni di reciproco aiuto, sia a motivo della testimonianza: per la sua validità si richiede la concordanza di due.

Il discorso, che precisa il programma, o meglio la natura di questa “missione”, ha inizio con l’immagine della messe abbondante e la scarsità degli operai: la piccola comunità cristiana in minoranza in seno al giudaismo e a maggior ragione rispetto al mondo pagano. E’ la coscienza del piccolo gregge, depositario del Regno, destinato a tutto il mondo. La responsabilità del fratello è l’origine della missione. La missionarietà della Chiesa non è fanatismo o proselitismo, ma conoscenza dell’amore del Padre per tutti e singoli i suoi figli.

“Pregate dunque…”: il tema della  preghiera, così caro all’evangelista, collega l’iniziativa della “missione” al “padrone della messe”, cioè a Dio. La preghiera, comunione col Padre, è la sorgente della missione, perché ne è anche il fine. L’unione con Dio è il primo e più efficace mezzo apostolico.

“Ecco io vi mando” (v. 3): il “mandante è Gesù in virtù della sua qualità di Signore. Gesù ci invia come fu inviato lui, l’agnello di Dio che leva il peccato del mondo. “Come agnelli in mezzo ai lupi”: questa immagine richiama i pericoli della missione che il “piccolo gregge” dei discepoli deve affrontare e che il Pastore protegge con efficacia da ogni pericolo. Una missione in povertà e sprovvedutezza, che espone e rende indifesi come lui, l’Agnello, il Figlio dell’uomo consegnato nelle mani degli uomini. Richiama l’agnello pasquale e il servo sofferente che porta il peccato del mondo.

Seguono, poi, alcune modalità negative della missione che riguardano l’equipaggiamento e il comportamento degli “inviati”. I discepoli non devono portare con sé nessuna borsa, né bisaccia, né sandali e nessun saluto lungo la strada. La mancanza di denaro e il rifiuto del saluto lungo la strada vogliono significare che la relazione che nascerà tra gli “inviati” e i “destinatari” della loro missione non si fonderà sui mezzi di scambio del “mondo presente”, ma su altri, più efficaci, che verranno precisati più avanti. L’unica sicurezza del discepolo è lasciare tutto e confidare nella parola del Signore.

Questa è la borsa che non invecchia, la borsa e la bisaccia necessarie nel momento della tribolazione. Se l’apostolo ha la borsa ricca e la bisaccia gonfia diventa lupo. La povertà è la condizione per essere agnello. Questa povertà è la carta d’identità della Chiesa, che porta i lineamenti di chi l’ha inviata. Quando hai cose, dai cose: quando non hai più nulla, dai te stesso. Solo allora ami veramente. La povertà è il duro banco di prova su cui suona l’autenticità dell’annuncio.

Le modalità positive si riferiscono a luoghi ed esprimono un movimento di congiunzione che si manifesta in uno scambio (comunicazione di certi beni). I missionari quando sono accolti in una casa devono dare il saluto: esso rappresenta un dono reale, espresso in maniera un po’ strana per la nostra mentalità, ma che sottolinea l’aspetto concreto e quasi palpabile della “pace”, segno dell’avvento del Regno, dell’ingresso nel Regno, frutto dello Spirito santo. Inoltre, le comunità fondate dai missionari del Vangelo devono provvedere alle loro necessità materiali. L’invito a fermarsi “in casa” si riferisce al soggiorno dei missionari: esso si sovrappone alla itineranza che caratterizza la missione e indica la stabilità della casa di Dio, la Chiesa, frutto della missione. Questo dimorare insieme è alimentato da un cibo e rallegrato da una bevanda che è già anticipo di quella del Regno. Dove l’amore è accolto, nasce la capacità di donare. La vera mercede per l’operaio è suscitare questa capacità di donare. La ricompensa di chi evangelizza è la gioia stessa del Padre nell’essere riamato dai figli.

Quando l’attenzione cade sui rapporti degli “inviati” con le “città”, si accentua il contrasto tra l’accoglienza e il rifiuto. Per quanto riguarda l’accoglienza i missionari ricevono il nutrimento e portano la guarigione che equivale alla “pace”, effetto dello Spirito e segno dell’avvento del Regno. Al rifiuto del messaggio e della persona degli apostoli corrisponde il loro “esodo” accompagnato da un gesto profetico (scuotere la polvere dai loro sandali): il gesto richiama il “giudizio” e la “morte”, in opposizione alla “Vita” portata dall’accoglienza. E’ un atto di denuncia: non c’è nulla in comune con chi ha rifiutato la pace, neanche la polvere casualmente attaccata ai piedi. La minaccia che ne segue richiamandosi al castigo di Sodoma vuole suscitare la conversione: quindi, è anche un gesto di annuncio, atto a risvegliare la coscienza sopita di chi non accoglie.

“I vostri nomi sono scritti nei cieli”: questo è il vero motivo di gioia. Il nostro nome non è solo nel libro della vita, è addirittura nel cielo (=Dio). Siamo realmente figli nel Figlio, redenti dal suo sangue e in lui eredi. La nostra gioia è perfetta per il nostro dimorare in lui e per il suo dimorare in noi: è l’unità d’amore, per cui fin da principio ci ha fatti. Motivo di gioia non sono tanto i frutti immediati della missione, quanto il fatto che essa ci rende figli nel Figlio, unendoci a lui in un unico destino d’amore per la morte e per la vita.

Bibliografia consultata: Ligneé, 1974; Fausti, 2011.

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